Certo, il titolo con cui rivede la luce, per i tipi della UTET, a quarant’anni dalla prima edizione, un classico della storiografia italiana come la Storia del Partito d’Azione di Giovanni De Luna è impegnativo, e forse anche provocatorio. In che senso quel partito, che ha avuto una vita breve (dal 1942 al 1947) e misera (alle elezioni per la Costituente del 1946 ottenne appena l’1,5% dei voti), può dirsi addirittura Il Partito della Resistenza? E se la Resistenza è l’atto fondativo con cui si è legittimata la Repubblica, come può un partito così piccolo identificarsi con essa, con quella che la retorica (e uso il termine in senso avalutativo) ha designato come una “guerra di popolo”?

In verità, fra i partigiani le formazioni di “Giustizia e Libertà” erano buon seconde numericamente rispetto a quelle comuniste: altrettanto coese, forse, sul piano militare, ma senza dubbio percorse da forti divisioni interne sul piano ideologico. Fra di loro c’erano i socialisti di Emilio Lussu e Vittorio Foa, i repubblicani di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, i liberalsocialisti di Guido Calogero e Aldo Capitini, a un certo punto anche gli eredi di Carlo Rosselli e del suo socialismo liberale (che era ben altra cosa idealmente dal liberalsocialismo). Le formazioni azioniste si distinguevano nettamente da quelle comuniste per la loro composizione sociale, che vedeva la stragrande maggioranza di borghesi e intellettuali fra le loro fila. Non è forse sbagliato chiamare quello azionista anche “il partito degli intellettuali”. C’era in verità un fattore comune che contraddistingueva l’impegno in politica di questi uomini di buona famiglia e solida cultura, anzi due.

Il primo concerneva la loro scelta di campo: a sinistra, nel fronte progressista, con un’idea di trasformazione radicale dell’Italia che non contemplava nessuna continuità con quella che era l’età liberale prefascista. Radicale, ma non marxista. Da questa impostazione derivava una differente valutazione dei due “totalitarismi” (per usare la chiave interpretativa di Hannah Arendt e altri studiosi che muovevano le loro riflessioni proprio negli stessi anni, i cosiddetti “liberali della guerra fredda”). Gli azionisti tutti erano non comunisti, ma non anticomunisti. Rispetto ai fascisti (in senso stretto ma spesso ahimé anche in senso lato: tutta la destra veniva a volte sommariamente liquidata come tale) c’era una pregiudiziale, la cosiddetta conventio ad excludendum, mentre verso i comunisti si cercava il dialogo e si sperava in una loro “maturazione” democratica. Bisognava gettare verso di loro un “ponte”, come sottolineava il nome di una rivista che si proponeva questo scopo e che faceva capo a Piero Calamandrei. Il loro antifascismo era perciò quello che aveva tenuto unite forze politiche diverse nella Resistenza e nel CLN, e perciò da questo punto di vista la definizione di De Luna è calzante.

Il secondo collante che teneva insieme tutti gli azionisti era una certa concezione morale, o addirittura moralistica, della politica. Che, in qualche modo, rifiutava del marxismo forse l’aspetto più vitale: quel realismo politico che aveva fatto sì che Benedetto Croce definisse Marx “il Machiavelli del proletariato” e che era impersonato in quel frangente storico da una certa ambiguità e spregiudicatezza (anche verso gli ex fascisti) di Palmiro Togliatti, alias Roderigo di Castiglia, contro cui l’azionista Norberto Bobbio avrebbe presto polemizzato.

Ora, però l’aspetto che a me è sempre più interessato concerne l’atteggiamento di Croce, che ritorna nelle pagine di De Luna, nei confronti del Partito d’Azione: quel Croce che era stato maestro di antifascismo per tutti gli italiani e maestro di studi diretto di molti protagonisti del nuovo movimento (da Adolfo Omodeo a Guido De Ruggiero, da Carlo Antoni a tanti altri). Egli fu da subito e sempre fortemente critico verso gli azionisti, e ciò muoveva di pari passo con la consapevolezza che egli acquisì, a partire all’incirca dal 1942, della necessità di combattere il comunismo una volta sconfitto il fascismo. L’alleanza degli Alleati con l’Unione sovietica era per lui, detto in altre parole, tattica e momentanea. «Ho lavorato a dare – scrive il 13 novembre 1943 nei Taccuini di lavoro- chiari e saldi concetti su quel che è il liberalismo… ed ecco che mi è stato contrapposto un intruglio di colorito liberale ma di realtà comunistica o, a ogni modo, dittatoriale, che, non osando chiamarsi apertamente socialismo e socialismo rivoluzionario, ha adottato il nome di Partito d’Azione».

C’è in questa pagina tutto lo sconforto del padre che vede i figli prendere strade diverse rispetto alla sua. Croce resta un isolato in campo culturale in Italia, nel secondo dopoguerra. Anche dopo la fine del Partito d’Azione, quelli che ne erano stati protagonisti contribuirono a dare alla nostra cultura un’impronta marcata a sinistra che si aggiunse e anche mescolò in qualche modo con quella più direttamente comunista. Tanto che Dino Cofrancesco ha coniato l’espressione “gramciazionismo”, sollevando non poche polemiche. L’aspetto più interessante da notare è che a partire da un certo punto, diciamo dagli anni Settanta del secolo scorso, in Italia e non solo, il filone radicale o eticista ha preso il sopravvento a sinistra rispetto a quello realista e marxista.

E in Italia si è persino confuso col montante “giustizialismo” che ha accompagnato la fine della cosiddetta Prima Repubblica. Una rivincita postuma del Partito d’Azione, nonché il motivo della sua forte “attualità” rivendicata da De Luna e da Chiara Colombini (autrice della prefazione del libro)? Ed è un bene o un male per la sinistra? Chi scrive propende per la seconda ipotesi, pur non essendo mai stato comunista, ma il dibattito è aperto.