L'anniversario della nascita del Pci
Il problema non fu la scissione, ma i socialisti massimalisti
In vista del Centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia sono schierati ai nastri di partenza storici, saggisti, commentatori, testimoni, politici, pronti a rivisitare la storia di quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (alla morte di quest’ultimo venne meno la “sacralità” del segretario generale) e che svolse – nel bene come nel male – un ruolo fondamentale nell’Italia del XX Secolo, non solo nella vita istituzionale, politica e amministrativa. La sua influenza condizionò la cultura, le arti, l’accademia, il sindacato, l’associazionismo, la magistratura e ogni espressione della società.
La sua ideologia e la sua prassi orientarono milioni di concittadini che trovarono in quella militanza politica una ragione di lavoro, di vita e di speranza, riuscendo a formare e a selezionare gruppi dirigenti forgiati nello studio, nella lotta e nella disciplina. Eppure nello scenario politico attuale il Pci (questo è il nome che il Partito –ça va sans dire – assunse nel dopoguerra) ha avuto il medesimo destino di Atlantide: un continente scomparso senza lasciare traccia se non nel mito e nella leggenda. Quanti hanno vissuto quella storia – sia pure senza mai essere stati comunisti – non possono non provare un senso di smarrimento al cospetto della fine di un’epopea che non ha lasciato tracce di sé, i cui eredi hanno persino rifiutato di accettare un’eredità tanto gravosa, precipitandosi all’anagrafe della politica a cambiare le generalità.
Il Pci, nonostante i giochi di parole delle “prese di distanza”, non ruppe mai con il sistema sovietico, se non quando l’Impero di Mosca, dopo il crollo del Muro di Berlino, si dissolse nel volger di pochi anni. Il partito seppellì il comunismo sotto le macerie e assunse un’altra identità, evitando accuratamente di rientrare nel filone del socialismo da cui era uscito nel 1921. La fine dell’Urss fu come la morte del dio di una religione laica, anch’essa corredata di dogmi, di teologia, di Sacre Scritture, di Santi, Martiri ed Eroi; persino di un catechismo atto a diffondere la dottrina tra le masse popolari.
Il comunismo, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, come una Chiesa, condannò le eresie, catechizzò con la violenza intere popolazioni, promosse Concili, istituì la Santa Inquisizione per debellare le deviazioni, privò miliardi di persone della libertà in nome di una promessa di giustizia che non trovò mai posto sulla terra. Eppure, davanti alla miseria della politica e della sua classe dirigente di questa fase storica, anche gli avversari del Pci non possono che constatare – come il poeta davanti alla quercia caduta – «Or vedo era pur grande». Ma ci saranno tempo e occasioni per parlare del comunismo e del Pci; soprattutto argomenti.
Con questo scritto vorrei dialogare con l’articolo degli amici e compagni Bobo Craxi e Riccardo Nencini, quando scrivono su Il Riformista: «Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del Psi, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi». È vero la storia ha dato ragione a Turati («gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista»). Ma non al Psi del 1921, il partito che nell’ottobre del 1922, al Congresso di Roma, espulse la corrente riformista.
Dopo la scissione (il pretesto fu trovato nella mancata espulsione dei riformisti in ossequio al diktat della III Internazionale) il PCd’I si rivelò, ben preso, una forza di minoranza. Pochi mesi dopo, nella competizione elettorale del 15 maggio 1921, il Psi ottenne 123 seggi (molti meno dei 156 delle elezioni del 1919), mentre il nuovo partito, nato a Livorno, elesse solo 15 deputati. Ma il dramma della sinistra non fu la scissione del gennaio 1921: Filippo Turati e Antonio Gramsci rappresentavano due minoranze di un Psi in mano ai massimalisti che fu il vero responsabile degli errori che in poco più di un anno aprirono – con la connivenza della Corona, dei poteri istituzionali ed economici – l’accesso al potere del Fascismo (nelle elezioni del 1919 il partito di Benito Mussolini si era presentato solo a Milano e non era riuscito a raggiungere neppure 5mila voti). Anche per la maggioranza del Psi il fascismo non era che «il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo». E l’obiettivo del «proletariato» in Italia era «fare come la Russia».
Basta leggere il resoconto di quel Congresso (nel 1963 la Biblioteca socialista diretta da Lelio Basso pubblicò gli atti dei Congressi socialisti dal 1892 al 1937) che si svolse tra polemiche, contestazioni e interruzioni (Paul Ley nel suo saluto a nome del Partito socialista unificato tedesco affermo che ‘’l’unità del partito non è sempre un bene per il proletariato»). Il dibattito si concentrò subito (anche grazie ad una inversione dell’odg votata a maggioranza) sul punto 6) Indirizzo del Partito, Rapporti con l’Internazionale. Il Psi aveva chiesto l’adesione alla III Internazionale comunista e doveva quindi condividere i 21 punti che ne condizionavano l’accettazione. Tra questi il punto 7 obbligava i Partiti candidati «a riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica di “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista».
Nel sollecitare «incondizionatamente e ultimativamente l’effettuazione di questa rottura – proseguiva il testo – l’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Modigliani, Kautsky (più un’altra seria di nomi, ndr) abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale». La frazione che si definiva dei “comunisti unitari” (ne facevano parte i maggiori leader massimalisti), non era determinata ad espellere i “concentrazionisti”, pur richiamandoli ad una più severa disciplina specie nel gruppo parlamentare (lo farà nel Congresso di Roma nell’ottobre 1922 poche settimane prima della Marcia fascista sulla Capitale). La mozione finale (a firma di Giacinto Menotti Serrati ed altri) riconfermava la «piena spontanea adesione alla III Internazionale» ed accettava i 21 punti intendendo che potessero essere interpretati «secondo le condizioni storiche e ambientali del paese’» e chiedendo perciò una sorta di esonero da Mosca.
Per questi motivi Amedeo Bordiga (mozione comunista pura) prese la parola ed affermò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale; così invitava i delegati della frazione comunista ad abbandonare l’aula e a recarsi – al canto dell’Internazionale – nel Teatro San Marco dove sarebbe stato costituito il Partito comunista. Molto significativo, in proposito, l’intervento di Antonio Graziadei il quale rimproverò ai massimalisti di separarsi «dai più vicini per andare coi più lontani». Benché, dopo la vittoria socialista nelle elezioni amministrative, alcuni mesi prima a Bologna – il fatto è ricordato anche da Craxi e Nencini – fosse stato espugnato Palazzo d’Accursio ad opera delle squadracce fasciste, l’eco delle violenze, delle distruzioni delle Camere del Lavoro, delle sparatorie e delle spedizioni punitive, si avvertiva casualmente, a Livorno, all’interno di un dibattito di un partito impegnato a guardarsi l’ombelico e a cucirsi addosso un’ideologia che non gli apparteneva, ma i cui capisaldi erano già inseriti nel preambolo dello Statuto: la conquista violenta del potere politico e la dittatura del proletariato in vista della realizzazione del comunismo e della scomparsa delle classi sociali.
Ma la sottovalutazione della minaccia fascista non era un limite della sinistra massimalista e comunista in Italia. Anche in Germania, il partito socialdemocratico – che diversamente dal Psi – era la colonna portante delle Repubblica di Weimar, il giorno prima di quello in cui Hitler ricevette l’incarico di formare il governo (30 gennaio 1933), aveva organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: «La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini (questa considerazione, in senso inverso e a pelosa difesa del Duce, l’abbiamo sentita troppe volte da noi, ndr). Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca».
© Riproduzione riservata