Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio.

Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”).

Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio.

Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo».

«Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932.

A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».