Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana.

Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura.

Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia?

Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”.

Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino.

Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere.

La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano.  Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.