Riccardo Lombardi è stato un personaggio straordinario, non solo un leader politico, ma anche un grande uomo di cultura. È affascinante ripercorrere la sua giovinezza politica (1919-1940), anche con il contributo del bel libro di Luca Bufarale, perché egli nel corso della sua vita ha vissuto e attraversato una molteplicità di mondi politici e culturali per cui il suo “meticciato” è stato davvero straordinario, al contrario di altre personalità la cui vita politica è stata assolutamente univoca e monocorde (sempre cattolico o socialista o comunista). Nella sua giovinezza politica Lombardi ha vissuto in modo profondo l’esperienza della sinistra del partito popolare. Successivamente egli ha molto approfondito gli studi economici, ma lo ha fatto avendo come punti di riferimento globali prima Marx e poi Croce (sfuggendo così al rischio sottolineato ironicamente da Salvemini secondo il quale prima Marx apre i cervelli alla capacità di analisi, poi li rincoglionisce nel dogmatismo). Subito dopo l’avvento del fascismo Lombardi, pur avendo posizioni del tutto indipendenti e autonome, ha molto frequentato il partito comunista clandestino, incontrando anche Tatiana Schucht (la cognata di Gramsci), a cui portò un contributo economico per aiutare Gramsci in carcere.

Attraverso queste frequentazioni Lombardi acquisì piena conoscenza del dibattito interno al PCI (la lettera di dissenso di Gramsci del 1926 nei confronti di Stalin e del suo gruppo vincente e poi la chiusura settaria del VI Congresso con la teorizzazione del socialfascismo e con l’espulsione dal PC d’Italia dei “tre” – Alfonso Leonetti, Paolo Ravazzoli, Pietro Tresso). Lombardi ebbe rapporti così stretti con i comunisti in clandestinità che in quell’ambiente conobbe la compagna della sua vita, Ena Viatto, precedentemente legata a Girolamo Li Causi (capo dei socialisti siciliani), la quale era una delle cosiddette fenicottere, usate dall’Internazionale Comunista per mandare messaggi, finanziamenti e altro in giro per l’Italia. Ho voluto ricordare questi profondi rapporti di Lombardi con il mondo cattolico e con il partito comunista per sottolineare la grande complessità della sua formazione politica e culturale e contestare alla radice la banalizzazione della sua posizione fatta (nella famiglia socialista) dal settarismo di Rodolfo Morandi, dalla ottusa faziosità di Dario Valori e di Tullio Vecchietti e dall’odio personale nutrito nei suoi confronti da Pertini che con l’appellativo-insulto di “giellista” e di “azionista” puntarono a liquidare una personalità politica dotata di grande spessore e di grande complessità.

In effetti, Riccardo Lombardi, proprio partendo dalla sua profonda conoscenza del mondo cattolico, del partito comunista, del partito socialista, puntava sul fatto che il Partito d’Azione avrebbe dovuto essere un soggetto politico del tutto nuovo, non appesantito o degenerato in seguito ai limiti e alle perversioni sia del riformismo storico che del massimalismo e nel contempo distante e autonomo dallo stalinismo e dal suo intreccio fra dogmatismo e spregiudicato tatticismo. Il Partito d’Azione avrebbe dovuto essere il protagonista di un’autentica rivoluzione democratica capace di smantellare con una serie di riforme di struttura la sostanza del fascismo, che non era come sosteneva Benedetto Croce una “invasione degli Hyksos”, ma qualcosa di profondo e di organico nella società italiana. Analisi simile a quella di Piero Gobetti. Di qui Lombardi sviluppò un’elaborazione che portò a quello che poi fu chiamato “il riformismo rivoluzionario”.

Lombardi fece di tutto per evitare due scissioni, quella del Partito d’Azione e quella del PSI. L’insuccesso di entrambi questi tentativi fu il segno del fallimento di quella che poi è stata chiamata la “sinistra democratica” che ha prodotto alcuni piccoli partiti anche seri e nobili, ma non in grado di misurarsi alla pari con la DC e con il PCI. A conclusione di tutte queste battaglie Riccardo Lombardi e una larga parte dei suoi amici azionisti confluirono nel PSI. E qui ci troviamo di fronte ad una catena di eventi paradossali. Nel corso dei vent’anni del fascismo il PSI era praticamente scomparso come forza politica organizzata. Ebbene, malgrado tutto nel 1946, cioè prima alle elezioni amministrative, poi al voto per l’Assemblea Costituente, il Partito d’Azione praticamente scomparve e invece il PSI ottenne più voti del PCI (il 20%). Gli elettori si espressero in modo molto significativo: la loro domanda era quella di un socialismo autonomo, riformista, innovatore, di stampo laburista. L’autentico crimine politico allora commesso da Pietro Nenni e da Rodolfo Morandi fu quello di non dare una risposta politica e culturale a quella spontanea domanda degli elettori, ma anzi di fare l’opposto. Non solo essi si mossero nella direzione del fronte popolare con il PCI (alle origini il fronte non fu proposto da Togliatti, ma da Nenni), ma addirittura fecero del PSI un partito organicamente stalinista sia dal punto di vista ideologico, che del suo regime interno, una sorta di partito comunista di serie B.

Invece Saragat aveva capito quasi tutto quello che stava maturando a livello internazionale a causa del totalitarismo dell’URSS. Saragat aveva anche ben chiaro il legame di ferro che legava il PCI al PCUS e conseguentemente l’assoluta negatività del fronte popolare. È stata invece probabilmente sbagliata la sua scelta di fare la scissione dal PSI fin dalla fine del 1947. Infatti, dopo la disfatta del 18 aprile del 1948 riemersero gli spiriti animali dell’autonomia socialista e un’eterogenea coalizione costituita proprio da Riccardo Lombardi, con Fernando Santi, Alberto Jacometti, Giovanni Pieraccini e da molti altri mise in minoranza Nenni e Morandi. Non a caso la loro mozione si chiamava Riscossa Socialista.

Fu in quell’occasione che si verificò la rottura totale, politica e personale, fra Lombardi e Pertini. Pertini era stato fra i fondatori della mozione autonomista, ma in pieno Congresso abbandonò i suoi compagni di cordata attaccando Lombardi perché azionista. Lombardi e Santi ritennero quell’atto un autentico tradimento. Sono stato personalmente testimone del fatto che la rottura non si è più ricomposta.
Comunque, se ce ne fosse bisogno (ma non c’è) quello che accadde in seguito a quel rovesciamento di maggioranza nel PSI costituì una conferma dell’importanza decisiva dei soldi in politica. Subito dopo la vittoria degli autonomisti la nuova direzione del PSI si ritrovò senza una lira e senza la possibilità di finanziamenti alternativi. Testimonianza di Lombardi al sottoscritto: «Allora non si scherzava: i soldi li prendevi dal KGB e dalla cooperative rosse, come facevano Nenni e Morandi; oppure li prendevi dalla CIA, dall’Assolombarda e dalla FIAT. Puoi pensare che io e Foa chiedessimo i soldi alla CIA e alla FIAT?. Malgrado tutto – mi raccontò Lombardi – il successivo Congresso del 1949 lo rivincemmo, sia pure per un pelo, ma non avendo una lira riconsegnammo il partito a Nenni e a Morandi e ci arrendemmo ad un regime interno di stampo stalinista che non consentì il dibattito politico fino al 1956. Lelio Basso, che aveva amici socialisti e comunisti perseguitati dallo stalinismo nei paesi dell’Est, fu estromesso dalla direzione, pedinato e emarginato. Solo io, Santi, Pertini e Nenni lo salutavamo alla Camera».

Questa infame situazione paradossalmente saltò per aria grazie ad un avvenimento internazionale, il XX Congresso del PCUS. Nenni parzialmente si riscattò con alcuni bellissimi articoli su Mondo Operaio che sostenevano l’irriformabilità del sistema comunista.
Riccardo Lombardi, insieme ad Antonio Giolitti – uscito dal Pci dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria – fu il cervello economico del PSI nella nuova fase preparatoria del centro-sinistra. Fu quella la stagione caratterizzata da un fervore riformista mai verificatosi nella storia italiana: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la legge urbanistica, la riforma della federconsorzi, il fisco, in prospettiva la sanità, le Regioni e infine la legge sul divorzio.

Riccardo Lombardi impersonò quella fase, tant’è che egli era al centro degli attacchi di tutti i giornali conservatori, che allora erano quasi tutti i giornali. In lui c’era certamente una venatura di utopismo: egli pensava possibile una concatenazione di riforme che realizzassero in corsa la modifica del modello di sviluppo e quindi la transizione al socialismo. Era il progetto del “riformismo rivoluzionario”. Più realista, da ex comunista, Antonio Giolitti si contentava del “riformismo possibile” (scrisse un libro dal titolo “il socialismo possibile”): una serie di riforme con una politica economica finanziarmente equilibrata. Per una fase gli interlocutori di questo riformismo socialista furono Amintore Fanfani e il sindacalismo cislino, ma contro quel riformismo si scatenò di tutto, fino al golpismo di Antonio Segni e del gen. De Lorenzo.
Il paradosso, però, non fu costituito dal fatto che una parte dei conservatori diventò reazionaria. Il paradosso, o meglio l’autentica anomalia, fu costituita dal comportamento di un largo settore della sinistra: in parte stupido e ottuso, in parte solo tatticista, in parte addirittura finanziato dai nemici delle riforme.

Il PCI si divise in tre tendenze: Amendola era apertamente favorevole ad un sostegno al centro-sinistra, Ingrao era del tutto contrario, Togliatti inizialmente fu favorevole poi decise di giocare di rimessa. Chi si comportò in modo incredibile fu la sinistra socialista di Valori, Vecchietti, Basso. Essa decise di fare la scissione dal PSI nel momento più delicato, facendo un enorme favore ai dorotei della Dc che non volevano far saltare il centro-sinistra, ma ridurlo ad un’operazione moderata. Riccardo Lombardi fece di tutto per evitare la scissione. Ci fu un incontro fra una delegazione della sinistra lombardiana composta da Lombardi, Tristano Codignola e Fernando Santi e una della sinistra socialista composta da Dario Valori, Tullio Vecchietti e Lucio Lami. Dopo due ore di chiacchiere inconcludenti Lami, fino ad allora silenzioso, prese la parola: “Riccardo ti prego di non perdere parte del tuo tempo prezioso a parlare con i tuoi amici del PCI perché ci convincano a non fare la scissione. Noi siamo autonomi dal PCI. Noi abbiamo stabilito rapporti diretti con i compagni del PCUS e io, che sarò l’amministratore del nuovo partito che si chiamerà PSIUP, ho risorse finanziarie per tre anni, poi si vedrà”. Lelio Basso, tramite Segni, di cui era amico personale, ebbe da Cefis, allora presidente dell’Eni, un altro contributo finanziario. Per Lelio Basso evidentemente si trattava del corrispettivo del famoso treno dell’esercito tedesco che riportò Lenin in Russia.

Il riformismo rivoluzionario era giusto come progetto che prevedeva una serie di riforme fondamentali per cambiare e modernizzare una società italiana vecchia, anchilosata e burocratica, arretrata rispetto al resto dell’Europa. Era invece impraticabile se considerato come una concatenazione di riforme le quali, non interrompendo il processo produttivo, tuttavia mettevano in atto un processo che portava alla transizione verso il socialismo (quale socialismo? E poi è possibile mantenere il processo produttivo e nel contempo avviare la transizione verso il socialismo? Ed è possibile uno sbocco socialista in un paese solo dell’Europa?).

Comunque a un certo punto a essere bloccate furono le riforme in quanto tali non la transizione al socialismo. L’Italia paga ancora le conseguenze di quel processo riformatore. Per questo Lombardi non esitò a entrare in rotta di collisione per ben due volte con Pietro Nenni finendo in minoranza nel partito. In ogni caso, vedendo quello che è accaduto successivamente quel confronto sulle riforme ebbe un livello mai più raggiunto, certamente neanche sfiorato ai tempi del governo Prodi dell’Ulivo. Altrettanto e forse più contraddittorio fu il rapporto di Lombardi con Bettino Craxi dove però, anche in quel caso, da entrambe le parti erano in campo idee e progetti di alto livello, da un lato la ristrutturazione unitaria della sinistra, dall’altro l’autonomia socialista e l’egemonia sul governo. Ma anche in quel caso Lombardi e la sinistra lombardiana persero la battaglia anche perché furono del tutto isolati dal PCI. Quando al Congresso di Torino, nel 1978, tutto il PSI, Craxi compreso, con rapporti di forza molto significativi, affermò la prospettiva dell’autonomia e dell’alternativa di sinistra scartando la riproposizione del centro-sinistra, il PCI non prese per nulla in considerazione quella proposta, rispose con la strategia del compromesso storico e poi con il governo Andreotti di unità nazionale.

Per concludere non voglio sottrarmi ad una valutazione che, sia pure di passata, riguarda il presente. Certamente nel ‘92-‘94 c’è stata una coalizione fra una parte dei grandi gruppi finanziari ed editoriali, alcune procure che, dopo una fase di incertezza, realizzò l’incontro con il PDS. A quel punto quella coalizione allargata ha distrutto il PSI, i partiti laici minori e una larga parte della DC. Non sembra però che dalla distruzione del PSI, prima il PDS e la Margherita, poi il PD, cioè la sinistra attuale, abbiano tratto un gran vantaggio, né dal punto di vista culturale né da quello politico. Francamente l’attuale dibattito culturale nel PD mi sembra penoso, nel migliore dei casi possiamo dire che è del tutto inesistente. Sul piano politico basta quello che sta avvenendo sul referendum per il taglio dei parlamentari per avere i brividi nella schiena. Può darsi che tanti anni fa se il PDS, invece di seguire la via giudiziaria – scelta ad un certo punto dai “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni) – avesse seguito quella proposta dai miglioristi con la conseguente unità fra il PSI e il PDS e la sconfitta delle tendenze eversive, populiste e giustizialiste, le cose sarebbero andate meglio rispetto al disastro oggi in corso.