La parola a uno che di guerra se ne intende: il generale Giuseppe Cucchi. Generale della riserva dell’Esercito, già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo, consigliere scientifico di Limes. Annota Cucchi: “Dalla caduta del Muro di Berlino, che nessuno dei numerosissimi sovietologi occidentali aveva predetto, ci siamo rifiutati di capire cosa stesse avvenendo oltre l’ex cortina di ferro. Nel dopoguerra, che speriamo arrivi presto, dovremo imparare dal passato”. Un passato nel quale non si è avuto il coraggio, dopo il crollo del Muro di Berlino di fare la cosa giusta: sciogliere la Nato.

Generale Cucchi, siamo alla “cronicizzazione“ della guerra in Ucraina?
Più che a una cronicizzazione direi che siamo a un tornante della guerra. Da quel che si può comprendere, l’Ucraina fa sempre più fatica a resistere. Abbiamo una macchina russa che ha una potenza spaventosa, in parte espressa e in parte ancora da esprimere, che ha una predominanza numerica molto forte, per quel che riguarda i materiali. E l’Ucraina ha un momento di crisi, di stanchezza. Un momento in cui ancora tutti i materiali che le stanno arrivando dall’Occidente o non sono arrivati o non sono pienamente operativi o non sono riusciti a entrare in linea. C’è un momento di flessione per quel che riguarda la resistenza ucraina. Per di più, questa guerra è più o meno la ripetizione della guerra contro la Finlandia del ’39. Sta avendo lo stesso andamento.

Vale a dire?
Anche lì, all’inizio l’Urss ebbe una sottovalutazione pesante dell’avversario. La pagò cara. Ebbe un inverno terribile. Dopo l’inverno cominciò progressivamente a esprimere quella che era la sua vera forza. E a quel punto non ci fu più gioco. Ora io mi auguro che con l’Ucraina non succeda, anche perché l’Ucraina ha un retroterra che è ben più forte e più attivo di quello che ebbe allora la Finlandia. Però in questo momento quello che vedo è un prevalere, faticoso ma progressivo, della Russia e una stanchezza crescente dell’Ucraina. Mi auguro che questa stanchezza non sia definitiva e che possa determinarsi una ripresa nel momento in cui riusciranno a entrare in pieno tutti quegli armamenti che sono stati forniti a Kiev e che dovrebbero cancellare o per lo meno ridurre quell’enorme squilibrio che c’è adesso tra la potenza di fuoco russa e quella ucraina.

Di resa da parte ucraina non se ne parla. Di ritiro russo, men che meno. Cosa può far svoltare la situazione, soprattutto sul piano politico?
Questa è una domanda che si pongono tutti e che finora non ha trovato una risposta che sia precisa e, soprattutto, efficace. La speranza è che prima o poi si riesca a individuare quella che può essere una strada politica praticabile. Ad oggi, questa strada non si vede. È una lotta muro contro muro. Non c’è da nessuna delle parti belligeranti intenzione di cedere. E ci s’interroga ancora su quelle che possono essere le vere intenzioni di Putin. Se ha intenzione di fermarsi, una volta occupato il Donbass e il Lugansk, oppure se ha intenzione di proseguire, di prendere Odessa, di spingersi fino alla Transnistria e quindi di creare una situazione di fatto estremamente pesante.

Lei prima ha fatto riferimento alla Finlandia. Per la premier finlandese l’ingresso del suo Paese, come della Svezia, nella Nato è, cito testualmente, “un atto di pace”. Lei come la vede?
In un certo senso per la Finlandia credo davvero che sia un atto di pace. Perché è una garanzia di sicurezza in più. Io se fossi il premier finlandese non sarei affatto tranquillo fino a quando non sarà diventato definitivo il mio ingresso nella Nato. Certo, la Finlandia non è nella stessa posizione dell’Ucraina, ma non si dimentichi che la Finlandia fino al 1919 è stata una parte dell’impero russo. Dopo il ’19 ottenne l’indipendenza. Indipendenza che tra l’altro, per una delle beffe della storia, fu firmata, per delega di Lenin, da Stalin. C’è una leggenda che dice che Stalin anche dopo aver vinto contro la Finlandia, le tolse il 10 per cento del territorio ma non volle inglobarla tutta di nuovo nell’Unione Sovietica proprio perché non volle rinnegare la propria firma posta nel ’19. È un altro pezzo di Russia che se ne è andato, sia pure in tempi storici diversi, ormai cent’anni e passa fa. Però è stata un pezzo di Russia.

In questa vicenda, agli aspetti militari e geopolitici, si giustappongono continui riferimenti storici, soprattutto da parte di Putin. Una volta fa riferimento a Pietro il Grande, un’altra alla Grande Guerra Patriottica contro Hitler, un’altra ancora alla vittoria su Napoleone…
Chiaramente Putin ha una sua visione della Russia tutta particolare. È una visione con moltissimi elementi del passato e pochi del presente. Lui cerca sempre di attingere a quella che è la storia russa del passato, esaltando, assolutizzandoli, tutti quegli elementi che lui pensa che possano aiutarlo a rafforzare questa sua idea. Non al di là dei confini russi, anche se purtroppo pare che ci sia anche qui da noi parecchia gente disposta ad accettare queste versioni russe. Credo, però, che il maggiore interesse di Putin nel suo ripetuto riferimento alla storia russa, e soprattutto alle sue vittorie militari, sia quello di mantenere vivo un orgoglio nazionale nei suoi concittadini. Un orgoglio nazionale che si traduca poi in un supporto per un’operazione militare che lui sta tentando di “vendere” come un recupero di territorio nazionale. Questo è un conflitto in cui la storia c’entra e c’entra parecchio. Perché l’ha influenzato. È un conflitto che trova le sue radici nel passato. In un certo senso è come se tutti gli insegnamenti che la storia avrebbe dovuto dare, non fosse riuscita a darli. Se non in negativo. Il fatto è che la pace non è un diritto acquisito una volta per tutte, che dura in eterno. Va conquistata ogni giorno. Ma questo non l’abbiamo ancora capito.

C’è chi sostiene che quando ci fu il crollo del Muro di Berlino e in seguito il disfacimento dell’impero sovietico, e la fine del Patto di Varsavia, quello era il momento giusto per sciogliere anche la nostra di alleanza: la Nato.
Quello di sicuro era il momento giusto. Il crollo del Muro di Berlino è stato interpretato dall’Occidente come una sua vittoria. Era talmente grande il sollievo per la fine di quella contrapposizione, che non abbiamo fatto delle analisi obiettive e precise. Pensavamo di aver vinto la Guerra fredda. Non l’avevamo vinta. L’unica cosa sicura è che l’Unione Sovietica l’aveva persa. Ma in un certo senso, l’aveva persa da sola. Noi lo prendemmo come una vittoria a mo’ delle grandi guerre. Quando le grandi guerre arrivano alla fine, si sa benissimo, almeno in teoria, che per avere un orizzonte di pace e di stabilità la prima cosa da fare è offrire al nemico una pace giusta. Non venne mai fatto, alla fine di nessuna guerra. Non è stato fatto neanche al termine della Guerra fredda.

Che spiegazione si è data di questo, generale Cucchi?
Forse perché eravamo tutti concentrati su quello che poteva essere un altro problema, cioè la paura che la guerra non fosse realmente finita e che ci fossero dei ritorni offensivi. Paura alimentata dal fatto che nell’Occidente avevamo recuperato un numero notevole di paesi. Se lei pensa che la Nato aveva dodici membri prima che cominciasse lo sfacelo dell’Est europeo, del Patto di Varsavia, e poi dell’Unione Sovietica. Adesso i paesi che fanno parte della Nato sono trenta. Non è un fatto meramente quantitativo, ma di visione, di percezione delle priorità d’assolvere. Pensi il peso che hanno potuto avere tutti questi paesi, terrorizzati, offesi, rancorosi per tutto quello che avevano vissuto negli anni di dominio sovietico. Non ci scordiamo di Berlino, di Budapest, di Praga e via di questo passo. Nel dire non vi fidate, state attenti, questi sono terribili, torneranno, prendeteci subito, abbiamo bisogno della sicurezza e senza di essa non andiamo da nessuna parte. Un martellamento continuo. Abbiamo guardato vicino e non siamo stati capaci di alzare lo sguardo a un orizzonte più lontano. Io ricordo che al Comando Nato di Bruxelles circolava, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, una battuta che era alla fine qualcosa di molto più profondo. La domanda era: a quanti paesi bisogna allargare la Nato per vivere tranquilli e in sicurezza. La risposta era: a uno solo. Alla Russia. Non abbiamo avuto il coraggio di farlo. Va detto che in quel momento ci sarebbe voluto un coraggio sovrumano per fare qualche cosa del genere. E ci sarebbe voluta una leadership collettiva e non individuale. Perché in quel momento qualche grande leader c’era: ricordo Kohl, la persona che ho incontrato nella mia vita in cui più ho visto i caratteri della leadership vera. Ciò che è mancata è una leadership collettiva che avesse una statura tale da potersi assumere una responsabilità del genere. È stata un’occasione mancata. E forse irripetibile.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.