Il vento sta cambiando e anche in fretta. Oppure no, forse è solo un’illusione. Man mano che la guerra tende a stabilizzarsi, e a incancrenirsi in micro scontri feroci e senza quartiere, in Occidente serpeggia a macchia di leopardo la consapevolezza di essere finiti in una palude densa di insidie. Lo scenario è abbastanza chiaro per chiunque voglia leggerne i contorni. I combattimenti minacciano di proseguire per mesi, addirittura si parla a mezza voce di almeno un anno. Sostenere lo sforzo bellico dell’Ucraina costerà una montagna di denaro ai paesi della Nato in armamenti e viveri.

A questo si aggiungerà il peso enorme della crisi economica, alimentare ed energetica ormai alle porte e che è inevitabile attendersi da una Russia finita all’angolo come un orso rabbioso. È un popolo che vive, in larga misura, in condizioni misere e che si abituerà in fretta alle ulteriori restrizioni comminate dall’Occidente. Vedremo quando si dovrà abdicare alle movide europee e ai lussi di oltre cortina. Si prepara un conto salatissimo che paesi come il nostro non possono reggere. La correzione quasi impercettibile di rotta che l’Italia sembra voler imprimere alla politica bellicista dei primi mesi è dettata non certo da ripensamenti etici di sorta, ma dall’esatta percezione che il paese andrà a sbattere e si farà molto, molto male. A un anno dalle elezioni nessuna forza politica può reggere una situazione sociale del genere, soprattutto con una pubblica opinione largamente scettica sulla guerra e sull’invio di armi al fronte ucraino.

Man mano che la crisi prenderà piede e le risorse pubbliche cominceranno a scarseggiare sarà difficile per tutti continuare a indossare l’elmetto e a sventolare bandiere. A occhio e croce andiamo incontro al nostro 8 settembre con la necessità di smarcarci dal fronte entusiasticamente abbracciato nelle prime settimane («Vincere e vinceremo») e di tentare un difficile slalom tra le insidie sul gas di una Russia gravemente risentita nei confronti dell’Italia e le attese di un’America che batte imperiosa i tamburi di guerra alla ricerca di una vittoria strategica che le manca praticamente dalla Seconda guerra mondiale. Se non fosse stato per l’autodissoluzione dell’Urss dopo la caduta del muro di Berlino, la politica militare americana si squadernerebbe nella storia come una ininterrotta teoria di costosi fallimenti (Corea, Cuba, Vietnam, Iraq, Libia, Afghanistan) in cui ha coinvolto, dopo le Torri gemelle, anche i propri alleati, tra cui l’Italia. Imbarcarsi con nazioni alla ricerca di rivalse dai propri fallimenti non è mai un’operazione intelligente.

E’ successo con il nazismo e il patto d’acciaio, capiterà tutte le volte in cui un popolo non prende atto delle profonde ragioni del proprio declino e cerca di imporre la propria superiorità con la forza delle armi. Tre quarti del mondo considera le operazioni militari in Ucraina nient’altro che una guerra dell’Occidente per recuperare peso e prestigio (ossia benessere) in una condizione di grave disagio e crisi. La difesa della libertà o della democrazia inalberata dai media occidentali è considerata una giustificazione posticcia e una imbarazzante foglia di fico. Abbiamo la presunzione di pensare che – così facendo – nessuno si accorga che, dopo pochi mesi dalla fuga da Kabul, siano tornati i burqa per le donne afgane. Alla storiella della difesa della democrazia non crede nessuno e anzi proprio questa guerra rischia di indebolire, forse per sempre, le opposizioni democratiche che in tutto il mondo lottano contro governi autoritari che guardano con simpatia a Putin.

Colpa della propaganda, potentemente sostenuta da lobby abbastanza decifrabili, che vede nella retorica della guerra di liberazione e della resistenza la possibilità di impossessarsi di un lessico che poco avrebbe in comune con la sostanza degli interessi che alimentano la crisi ucraina. Nel frattempo, Svezia e Finlandia, dopo decenni e decenni di neutralità, entrano nella Nato proprio nel momento in cui si addita la Russia come minaccia primaria per l’alleanza. I paesi occidentali pianificano enormi progetti di riarmo, smaltendo i fondi di magazzino in direzione di Kiev. Gli Usa inviano aiuti per decine di miliardi di dollari nella perfetta consapevolezza che quel denaro è destinato alla propria industria militare, produce lavoro e tasse e, alla fine, sarà la solita manovra keynesiana di aiuto all’economia interna. Per l’Italia la partita del riarmo sarà profondamente diversa. Ci sarebbe, dicono, la necessità di sistemi d’arma sofisticati e costosi che dovremo acquistare da americani, francesi o inglesi.

Per cui, oltre alla crisi energetica e di molti altri settori vitali (dal turismo all’agroalimentare) rischiamo di buttare denaro anche in importazioni di armi a vantaggio di altri “alleati”. Il tutto in una cornice di debolezza finanziaria e di stremo del deficit pubblico dopo il picco pandemico. In tutto questo guazzabuglio di interessi e di necessità, la via della pace resta di fatto impraticabile. I big della Nato non hanno alcun interesse a smorzare le fiamme e a mitigare le speranze di Kiev di una vittoria militare. Intravedono la possibilità di piegare un nemico storico e di intimidire il prossimo che si staglia minaccioso a oriente. In Italia lo sventolio delle bandiere offusca la vista per ora.