Incedere per ignes. Camminare sui carboni ardenti e, anche, tra macerie fumanti. È evidente che la guerra in Ucraina sta mandando in frantumi visioni del mondo, convinzioni religiose, culture politiche, anfratti delle coscienze. E sta creando irriducibili distanze, polemiche roventi, con l’inevitabile tentazione del tacere. La maggioranza della popolazione italiana – si legge nei sondaggi velocemente divulgati e immediatamente cestinati – è contraria all’invio delle armi all’Ucraina, non vuole essere coinvolta nel conflitto, non ritiene del tutto convincente la posizione dell’Occidente.

Dei destini di questa maggioranza muta si è impadronita un ceto sacerdotale che da quasi due mesi ha spalancato le porte del tempio di Giano e ha deciso che, certo, la Repubblica ripudia la guerra (articolo 11 Costituzione), ma solo a fasi alterne e a seconda delle convenienze in campo. Illustri costituzionalisti (Ainis, Azzariti e altri) lo hanno spiegato ampiamente: il fatto che la Costituzione disciplini lo stato di guerra non vuol dire che i conflitti armati siano consentiti nella risoluzione delle controversie internazionali, ma solo che l’Italia tollera la guerra di difesa. È un ripudio che però uno stuolo di sciamani con l’elmetto non condivide e che ritiene, come detto, di poter declinare come crede, scegliendo le guerre da sponsorizzare. In Afghanistan prima sì e poi no; in Iraq prima sì e poi; in Serbia prima sì e poi no; in Libia prima sì e poi no; in Siria o in Yemen chi se ne frega. Insomma a seconda di come gli interessi si organizzano e si mobilitano, una buona ragione per sostenere la guerra la si trova sempre. Le basi di al Qaeda, le armi chimiche, le fosse comuni, le torture.

Questa volta circolano almeno un paio di giustificazioni per spiegare il nostro progressivo coinvolgimento nelle ostilità in Ucraina. La prima è abbastanza cinica, ma ha una certa presa utilitaristica e non è esente da una feroce razionalità. Occorre punire e fermare la Russia, altrimenti ci ritroviamo i cosacchi ad abbeverare i cavalli nelle fontane di San Pietro. È propaganda un po’ rétro, ma ha una buona efficacia. Dopo l’Ucraina, toccherebbe alla Polonia, poi alle repubbliche baltiche, poi alla Finlandia, si dice. Insomma la teoria dell’effetto domino è abbastanza nota e la litania viene declamata in coro dalle vestali. Certo bisognerebbe spiegare perché l’invincibile Armata russa non sia riuscita a espugnare la fragile Ucraina e come si possa pensare che abbia i mezzi per arrivare anche solo ai confini della Polonia. Ma questo è un esercizio retorico che pretenderebbe un minimo di buona fede e una dose di sincerità. Merce rara sotto gli elmetti.

Poi esiste una seconda giustificazione più bohémien, emozionale e coinvolgente: quella secondo cui gli ucraini combattono per la libertà e per la democrazia che sono i valori fondanti dell’Occidente per cui meritano di essere armati e sostenuti. Che il popolo ucraino stia lottando per la libertà e per l’indipendenza è indiscutibile; come è chiaro che gli stati che oggi lo sostengono con carichi di armi avrebbero dovuto piuttosto impedire l’invasione e la guerra con sanzioni preventive e trattando su marginali concessioni territoriali diventate oggi impossibili. Anche il presidente Draghi avrebbe dovuto subito porre agli italiani l’alternativa tra la pace e il condizionatore, non dopo settimane di un bagno di sangue con migliaia di vittime innocenti. Però. Però un merito il premier lo ha avuto con il suo schietto eloquio perché ha reso radicale la contrapposizione. Forse avrebbe potuto esprimerla in termini poco poco più articolati domandando se l’Italia preferisce la pace “dopo” la guerra oppure il fresco dei propri condizionatori. Perché è questa la vera alternativa sottesa al discorso.

Se accettare un periodo, più o meno lungo, di guerra fredda o tiepida con la Russia, rifornendo di armi l’Ucraina, oppure se sfilarsi dalla contesa lasciando accesi termosifoni e condizionatori a nostro piacimento. La via del negoziato, della mediazione, del compromesso non è presa neppure in considerazione. Non esiste e basta nel lessico della trincea. La pace in quella traiettoria significa restare fedeli all’Alleanza atlantica a tutti i costi e fino in fondo anche a rischiare una gigantesca recessione economica e un collasso finanziario che stritolerebbero le imprese e la gente. Il tutto, sia chiaro senza neppure la garanzia che – prima di qualche anno – i condizionatori si possano riaccendere. Quindi, secondo i più, stiamo difendendo i valori occidentali e la democrazia. Che strano. In un paese in cui la partecipazione al voto coinvolge circa la metà della popolazione; in cui i partiti patiscono una crisi irreversibile; in cui tanta economia privata galleggia su un mare di privilegi, rendite e favori di regime; in cui lo Stato compra a miliardi di euro concessioni su beni che sono suoi, ma poi non riesce a spostare un ombrellone da una spiaggia; in cui nugoli di corporazioni gravano la collettività con rendite parassitarie enormi; in cui la giustizia è travolta da critiche e sospetti; in cui non si riesce a far nulla di meglio che chiamare alla guida della nazione un ottimo banchiere mai eletto; in cui milioni di giovani diventano vecchi restando precari; in cui l’evasione fiscale è una scelta collettiva. Bene in questo Areopago ateniese, esempio di virtuosa democrazia, è normale che il cuore delle vestali in tuta mimetica pulsi in favore della libertà e della democrazia. Come potrebbe essere diversamente verrebbe da chiedersi.

In questa rappresentazione idealizzata, in questa retorica della libertà e della democrazia c’è un evidente inganno o una terribile mistificazione. Tra quelli che solidarizzano, tra quelli che inneggiano all’invio delle armi e poi guardano in tv ogni giorno il massacro di centinaia di ucraini inermi sotto le bombe assassine di Putin, si annida un nemico insidioso per la Repubblica. È il nemico che vuole mantenere la lucrosa e opulenta “pace” dei pochi a dispetto dei “condizionatori” dei molti; quello che declina la libertà come esercizio delle proprie prerogative e garanzia dei propri privilegi; quello che non si cura di rimuovere le diseguaglianze e le ingiustizie; quello che ama sventolare le bandiere della propaganda libertaria senza guardare in faccia il deterioramento delle condizioni di vita che rendono ogni libertà “una scatola vuota” tante volte, un orpello per placare la sofferenza dei più. Era infuocato il dibattito, prima della guerra, sulla crisi dei sistemi democratici e della rappresentanza parlamentare; forze politiche importanti si ergevano a espressione del malessere diffuso e della necessità di riempire nuovamente di contenuti e di svuotare di retorica la Repubblica. Ora i chierici con l’elmetto hanno trovato il modo di rivitalizzare parole spesso prive di senso per tanta parte dell’Occidente. Una profonda secolarizzazione religiosa e civile sta prosciugando le democrazie trasformandole agli occhi di miliardi di persone in un odioso Eden consumistico.

Si sa, la guerra aiuta e il nemico serve a esaltare valori smarriti, a nascondere le crepe delle società preoccupate di mantenere il proprio benessere sotto l’ombrello democratico. Tra la pace armata e i condizionatori, gli italiani non devono fare alcuna scelta. Avrebbero avuto, invece, il diritto di vivere in un paese che non si fosse svenduto agli oligarchi del gas; che non acquistasse ora il gas da altri regimi illiberali andando in giro per il mondo con il cappello in mano; che avesse visto realizzato un equo benessere per non essere terrorizzato da minacce in gran parte esistenti quanto l’antrace di Saddam Hussein. Una volta erano le dittature a tentare di salvarsi con la guerra (come l’Argentina con le Falkland) oggi tocca alle democrazie rese fragili e molli dal consumismo onnivoro.