La storiella del partito di Putin che inquina le acque della discussione sulla posizione dell’Italia nella guerra in Ucraina continua a circolare sui media come quei pettegolezzi che non si esauriscono sino a quando non abbiano compiuto tutto il loro ciclo vitale. A molti di quelli che si oppongono all’invio delle armi all’Ucraina, che ritengono la resistenza ucraina una sorta di «inutile carneficina», che sostengono che l’Occidente abbia responsabilità enormi nell’errore di valutazione compiuto sulle intenzioni del Cremlino, a tutti questi di Putin e delle sue sorti non interessa praticamente nulla. Si è creata, non certo in buona fede, una cortina invalicabile, una separazione che – secondo un modello classico della discussione politica del secolo scorso – non pone al centro le idee altrui, ma i retropensieri, la loro matrice, privando a monte l’interlocutore di una qualsiasi legittimazione. È un modo di procedere nel dibattito talmente scontato da destare meraviglia che funzioni ancora, se non fosse per l’aura bellicista che avvolge il paese che la rende pienamente giustificata ed efficiente per evitar di far di conto con la realtà. Si sa con i nemici non si dialoga di certo, si combatte e basta.

È un abbaglio non causale e che si muove sulla scorta di interessi e scopi non sempre legittimi o moralmente edificanti. La guerra sembra volgere verso un estenuante bagno di sangue dai tempi incerti. Persino Zelensky nota segni di stanchezza e di crescente distacco verso le cronache di guerra nelle pubbliche opinioni degli alleati. Per quanto sanguinolente e drammatiche siano immagini e racconti, le società occidentali metabolizzano ogni cosa e la guerra, prima o poi, finirà nei ritagli dei telegiornali e nelle pagine interne dei giornali. Purtroppo. Resteranno gli sconvolgimenti economici e finanziari che il conflitto avrà prodotto. Resteranno i lutti e i dolori e gli esiti di guerra ingiusta per il popolo ucraino. I più attendibili analisti valutano già oggi in centinaia di miliardi di euro il costo della ricostruzione dell’Ucraina, ci sono da gestire milioni di rifugiati che non potranno rientrare chissà per quanto tempo nel loro paese desertificato dai bombardamenti, ci sarà un dialogo da ricostruire in Europa dopo l’asprezza di questi tempi. Naturalmente nessun paese, neppure gli Stati uniti, può affrontare i costi della ricostruzione a Est. Né c’è da pensare a un altro recovery plan in favore dell’Ucraina; i soldi Bruxelles a stento li ha dati a noi, pensate se li presterà mai a un paese sfigurato e quasi fallito.

«Compra quando scorre il sangue nelle strade», era la perfetta sintesi del cinismo capitalista raccomandata da John D. Rockfeller (guarda caso un petroliere) e anche questa guerra consentirà vantaggi enormi cui potrebbero partecipare proprio i gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti sedicenti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica – i petrolieri americani e mediorientali per intendersi – la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. Certamente, la critica sibila già alle orecchie: il solito pregiudizio anticapitalista; peccato però che l’argomento provenga dal presidente Biden che solo due giorni or sono ha attaccato i petrolieri americani per le loro speculazioni e dal ministro Cingolani non certo sospetto di pregiudizi antioccidentali.

Sulla guerra in Ucraina ci sono almeno tre diverse traiettorie di approccio: quella etico religiosa che trova la massima espressione nel papato di Roma; quella retorica che ha dalla sua il popolo dei cultori della resistenza ucraina di fronte all’invasore; quella politico-economica che guarda ai nuovi equilibri e cerca di ragionare sulle probabili conseguenze del conflitto. Per ognuna di queste prospettive sono possibili più opinioni e diverse convinzioni. A esempio, sicuramente si dovrà tornare sulle parole pronunciate dal cardinale Parolin a proposito della guerra giusta, totalmente disallineate dalla posizione del pontefice e per questo ridotto al silenzio da tempo. Per il momento valga la considerazione che i signori della guerra che alimentano, in questa fase, la tesi della (altrui) resistenza a oltranza e del supporto militare occidentale («aiutiamoli a casa loro») stanno, di fatto, agevolando un profondo e radicale riassetto non del potere russo, quanto delle stesse società occidentali e di quelle più fragili ed esposte come quella italiana. Può darsi che Putin ci rimetta le penne, ma questo non porterà alcuna sostanziale novità negli equilibri geopolitici di medio termine. Chiunque sia seduto al Cremlino o a Pechino è certo della fragilità atlantica dopo la fuga ingloriosa da Kabul, con un popolo abbandonato in mano a dei tagliagole, e pensa che ora gli occidentali vogliano solo rifarsi il trucco a spese di un popolo inerme.

Il nostro paese, piuttosto, rischia un’inflazione a due cifre, cose da anni 70 per capirci, e teme il conseguente default sul debito pubblico; vede il proprio approvvigionamento di materie prime reso radicalmente più oneroso, si accinge ad accompagnare definitivamente al collasso settori commerciali, turistici, manifatturieri già messi in ginocchio dalla crisi; scorge lo spettro di una recessione cattiva e socialmente discriminante. Senza considerare il disallineamento dagli obiettivi del Pnrr, ormai difficili da raggiungere se le cose vanno avanti in questo modo. Tutto avrebbe dovuto fare la fragile Italia fuorché allinearsi su posizioni bellicistiche e insensatamente guerrafondaie. Incrementare il bilancio del ministero della Difesa in questi giorni di fuoco e rendersi cobelligerante con l’Ucraina, fornendo per canali ufficiali le armi, sono scelte insensatamente contrarie all’interesse nazionale e della popolazione italiana che, infatti, in grande maggioranza è contraria a queste opzioni. La circostanza stupisce tutti i giorni il partito dell’elmetto che non si spiega come mai la resilienza pacifista della nazione non sia stata ancora piegata dall’urto mediatico di queste settimane.

Non si vuole ammettere semplicemente che la saggezza di un popolo che ha patito una guerra anche fratricida rende la scelta da fare del tutto chiara innanzi agli occhi dei più. Servizi di intelligence, ambasciate, analisti hanno – forse in buona fede – completamente errato nella valutazione delle decisioni di Putin, impedendo un’azione diplomatica che potesse evitare la guerra. Hanno reso ciechi i governi, ammesso che non ciechi non abbiano voluto essere: gli americani la chiamano willful blindness (la cecità colpevole). Magari si sarebbero adottate prima le sanzioni che – come lamenta il presidente Zelensky – sono oggi in gran parte sulla carta se si esclude lo spot pubblicitario di qualche yacht e di qualche appartamento. Evitare la guerra sarebbe stato il primo dovere dell’Occidente che, invece, ha preferito o scelto di cullarsi nella convinzione che nulla sarebbe successo. Poi ci sono quelli che hanno sperato che tutto succedesse e che il sangue scorresse per le strade per regolare i propri affari. Il nemico non solo è fuori dai confini della patria, ma opera alacremente anche al suo interno.