Sull’onda emotiva dei massacri di massa a Bucha, Letta sembra strigliare le residuali cautele europee. Ora che anche Macron spinge, egli guarda in certa misura alle accelerazioni della Polonia. E insiste con le armi e con l’embargo accarezzando la strategia dell’escalation per sorreggere il duello finale con l’autocrazia imperiale. La complessità della lettura politica del fenomeno bellico suggerita da un preoccupato Prodi non conquista il Pd.

È certo che la guerra di lunga durata in cui si sta ineluttabilmente precipitando determinerà smottamenti nel sistema politico. Gli attori principali ne saranno coinvolti, a cominciare da Draghi. La guerra che dilaga nell’assenza di rallentamenti politici ha mostrato che l’autorevolezza conquistata nella gestione dei numeri per la ripresa e nel salvataggio della moneta non si traduce in un immediato prestigio spendibile nel territorio della grande politica, cioè nelle trame delle relazioni internazionali dove con le armi si fronteggiano i più nudi calcoli di entità sovrane. La crisi ucraina ha come intralciato la potenziale metamorfosi di un grande tecnico in un leader politico spendibile nelle arene mondiali. Capo politico del resto non si diventa per il richiamo delle competenze, occorre una visione, una passione calda, e soprattutto una capacità di persuadere la massa per costruire forze. E questo limite, che sembrava colmabile sino a quando il governo Draghi rimaneva entro le condizioni di una emergenza solo economico-sanitaria e guidava con efficacia la ripresa, diventa palpabile quando riappare d’un tratto il volto classico della politica che la vuole sospesa ambiguamente un po’ leone e un po’ volpe.

Un intervento più energico dell’esecutivo sarebbe stato indispensabile in questo mese di bombardamenti perché la struttura produttiva dell’Italia rischia in profondità dal prolungamento della guerra, dalle sanzioni, dall’embargo. Uno stringente interesse nazionale, che non può essere accantonato senza compromettere la democrazia già fiaccata da lustri di populismo e stagnazione, lega la ripresa italiana al contenimento dell’intensità del conflitto. In certi momenti Draghi ha preferito l’assenza dalla ribalta, in altri non ha rigettato le semplificazioni imposte dal Pd (il Pil va sacrificato in nome della libertà) e dal coro marziale della grande stampa alla caccia dei panciafichisti. Parlando di una guerra di civiltà, interrogandosi addirittura sulla liceità del tirannicidio, trasformando l’informazione di guerra in un diluvio ininterrotto di atrocità per surriscaldare il tifo irrazionale per un abbattimento della macelleria russa, i media parteggiano per il prolungamento di un conflitto che per il campo democratico ha però dei costi asimmetrici. Nella “guerra metafisica” per la libertà gli americani (o, in certa misura, gli inglesi) con la democrazia a Kiev esportano anche le loro armi, il loro petrolio, il loro gas. E c’è da scommettere che il bilancio federale del paese a stelle e strisce non risentirà negativamente del fumo delle bombe. Spesso anzi nel dopoguerra l’economia stagnante del dollaro è stata rivitalizzata proprio dall’economia creativa dei cannoni che con i loro rombi hanno invertito le inesorabili curve discendenti della crescita pigra.

Il pantano delle sanzioni e della guerra indefinita, se solletica il dollaro sempre più orientato verso la competizione cinese per essere distratto nella fornitura dell’ombrello militare agli europei, ricaccia invece l’Italia nella crisi sociale, economica e politica come ripetono inascoltati Visco, Bonomi, i sindacati. Il governo ha trascurato che il tornaconto degli Usa, che esortano alla guerra di lunga durata dinanzi alle ordinarie scene di barbarie, sul nodo dei costi sociali della coalizione per Kiev è ben diverso da quello europeo e dall’interesse nazionale. Per risultare efficace, Draghi avrebbe potuto con profitto usare le stesse formule utilizzate da Prodi che rivelano un grande respiro politico e una attenzione ai dati dell’economia: prima di destinare nuovi fondi alle armi, bisogna definire un sistema europeo di difesa con ipotesi di cooperazione rafforzata tra i paesi chiave. Anche le indicazioni giunte da Renzi sarebbero apparse pregnanti in questa difficile congiuntura: le armi non possono in eterno surrogare la politica, in attesa dei due giganti Cina-Usa la carta di una mediazione con un attivo ruolo europeo (Merkel) è la più efficace strategia per districarsi tra le conseguenze delle immani devastazioni. La mancanza di una lettura politica del conflitto ha rallentato visibilmente l’azione di governo con la conseguenza di favorire il sacrificio di fondativi interessi nazionali ed europei appannati dinanzi alla forza d’urto di una stampa rapita dall’estasi bellica e capace di oscurare il Papa, di denunciare come servo di Putin il mite direttore di Avvenire.

C’è in molte penne del pensiero belligerante il rammarico che le immutabili verità della assoluta morale siano sbandierate da “un sagrestano di Putin” come il Patriarca di Mosca e non amplificate invece dall’Occidente, da anni infiacchito per un eccesso di relativismo etico susseguente al ‘68. Si profila una guerra di civiltà che assegna alle bombe divinizzate la determinazione di una mutazione antropologica come quella incorsa ai polacchi, che ora aprono e hanno smesso di edificare muri per bloccare i profughi con la pelle abbronzata. Chi ha stigmatizzato il nichilismo dei borgatari dell’Occidente decadente e perduto, che escono dalle periferie di Tor Bella Monaca, di notte si avvicinano al centro e scatarrano sul citofono degli intellettuali assediati nella Ztl sempre più violata, ora recupera il mito della bella civiltà intaccata dai soldati orientali che minacciano la distruzione degli immortali valori. Queste strane sentinelle dell’Occidente armano i loro cannoni verbali in una guerra metafisica tra il “macellaio” e la piena libertà dimenticando che tra le più grandi conquiste del pensiero occidentale moderno rientra proprio la rimozione definitiva della categoria di guerra giusta.

Nel modico sforzo di ragionare nei termini del realismo politico gli opinionisti esortano ad assumere Putin non già come partner di un aspro gioco competitivo risolvibile con la politica ma quale nemico (non solo dell’Ucraina, ma anche dell’Europa) che in via ipotetica va combattuto sino alla estinzione e con il quale non si può contrattare alcunché prima di avergliele ben suonate in una guerra infinita di distruzione. Così però si diventa cobelligeranti e l’Europa fugge dai compiti di mediazione lasciandoli nelle mani di Erdogan in attesa di un dispositivo cinese-americano. Engels, che di strategia se ne intendeva molto, scriveva che «la scienza militare, come la matematica e la geografia, non ha una particolare opinione politica. In guerra vi è una sola linea politica giusta: attaccare con la massima rapidità ed energia, battere l’avversario e costringerlo a sottomettersi alle condizioni del vincitore». Breve deve essere l’attacco, non la capitolazione dell’aggredito che fugge senza cenno di resistenza, novello e dubbio principio di strategia, sconosciuto nelle università pubbliche e insegnato solo alla Luiss.

L’obiettivo strategico di Putin (una rapida conquista per la “liberazione”) non è stato raggiunto anche per la sottovalutata accumulazione di una potenza militare, economica e tecnologica da parte dell’Ucraina da quasi un decennio sotto l’ombrello americano. Non serve una guerra infinita per accertare lo scacco di Putin e per evitare che, dopo il fatto compiuto, posizioni troppo sbilanciate tra i contendenti si determinino prima che i duellanti vengano portati dalle potenze mondiali sul tavolo di pace. La posizione effettiva dei belligeranti è già trasparente, non occorre procrastinare le uccisioni, i crimini di guerra e le demolizioni urbane per misurare il grado di vittoria e di sconfitta di ciascun attore.

La dottrina dei bellicisti è speculare a quella degli immaginifici cervelli dell’ateneo confindustriale. E, se quelli raccomandano la rinuncia preventiva alla resistenza, loro predicano la rinuncia preventiva alla politica, da spegnere prima della capitolazione dello Zar. Chi paga però il prezzo delle distruzioni e delle armi, chi sostiene i costi della resistenza (persino i mille euro al mese per 10 milioni di profughi non sono noccioline) e gli oneri della ricostruzione? Inoltre, la promessa di una entrata celere nell’Unione europea dell’Ucraina, un autentico Stato fallito privo di infrastrutture, con eserciti privati, milizie ideologizzate e armi incontrollabili, con 44 milioni di popolazione impoverita non è di sicuro priva di salati costi finanziari, sociali e politici.

La strategia che i media hanno tracciato, e che Draghi non ha contrastato come avrebbe dovuto, prevede di aspettare il crollo del regime, la disintegrazione fisica delle città e solo dopo il tangibile nulla decretare l’intervento della mediazione. Una sciagura anche per l’Italia. La telefonata di Draghi a Putin forse segna la ripresa di una iniziativa politica che è parsa sinora flebile. L’inerzia e la subalternità atlantica non compromettono solo le prospettive di una costruzione di leadership ma demoliscono le basi strutturali dell’economia italiana. I sondaggi svelano che la chiacchiera antipacifista non fa breccia nell’opinione pubblica, allarmata per la recessione, la contrazione dei consumi e l’inflazione. C’è da scommettere che il ribellismo che crescerà nei ceti microimprenditoriali, del commercio, delle professioni e del lavoro rovinerà i sogni di una comunità metafisica che in nome della libertà di Kiev come presidio dei valori europei fa parlare solo le armi e trascura i tristi segnali che lasciano sprofondare nella povertà Roma.

C’è un altro piano, oltre a quello di ripresa e resilienza, che occorre predisporre per governare la crisi. E qui la capacità di fare di conto non basta, occorre la politica. Avrà Draghi l’impeto per rompere l’assedio dei media che silenziano le voci del Papa, di Prodi, di Renzi e amplificano ad arte le stravaganze strategiche di qualche teorico della resa preventiva per rimarcare con facilità la follia del dissenso pacifista? Per recuperare una iniziativa politica, in un contesto drammatico che sempre più la restringe, Draghi dovrebbe azzittire il piffero ideologico di Letta, che pare una eccitata recluta in visita al distretto militare, e scongiurare la escalation come equivalente alla catastrofe del sistema Italia.