Fabrizio Cicchitto e Umberto Ranieri mi attribuiscono atteggiamenti, come gli inviti alla resa, che sono più vicini alla dottrina impartita alla Luiss dall’allievo di Luciano Pellicani che alle mie opinioni. Il diritto di autotutela è, secondo la Carta dell’Onu, immediatamente azionabile nel caso di un attacco armato ad un paese sovrano. Ma, nella estensione degli obiettivi che i miei critici conferiscono alla resistenza ucraina, esso subisce una chiara metamorfosi. Da strumento di necessità e urgenza per la conservazione dell’integrità territoriale, la belligeranza diventa una iniziativa di carattere offensivo-creativo per cambiare i rapporti di forza in Russia e diffondere con le bombe la democrazia.

La soluzione che Cicchitto e Ranieri propugnano (la rimozione di Putin come obiettivo di una guerra propedeutica ad un nuovo ordine mondiale e quale condizione imprescindibile per il negoziato con i capi di una nuova Russia finalmente liberata “dall’ex capo delle spie”) è in palese violazione del diritto internazionale. Che non contempla la tramutazione di una legittima guerra difensiva in una guerra illegittima per la trasformazione del regime interno di un altro paese, sia pure esso del tutto censurabile nella sua qualità di Stato aggressore. La possibilità di una guerra per la democrazia non è prevista nel diritto internazionale, che non riconosce un discrimine tra gli attori riferibile alla forma di governo di uno Stato membro ma considera solo la sovranità che rende una entità territoriale un soggetto operante entro la comunità di nazioni indipendenti.

Lo spirito del diritto internazionale evoca quel passaggio, che i due miei critici reputano semplicemente una vaga formula, verso il coinvolgimento di potenze e diplomazie per ottenere la immediata sospensione delle operazioni militari. L’autotutela è, in tal senso, una risposta legittima solo in quanto, in certa misura, si risolva in una ostilità preferibilmente provvisoria e comunque finalizzata al recupero della gestione dell’emergenza nell’alveo dei principi e degli attori della comunità internazionale (non solo Consiglio di sicurezza, ma anche organismi regionali, accordi tra attori continentali). Le parole di Biden (macellaio, criminale di guerra, genocidio), le formule di Zelensky (dichiarazione del presidente della Germania come ospite non gradito, evocazione della necessità di una guerra mondiale, censure al Papa che osa coinvolgere donne russe e ucraine in una cerimonia religiosa) costituiscono un effettivo impedimento alla soluzione politico- diplomatica e in tal senso cominciano ad essere stigmatizzate dal governo tedesco e dal presidente francese.

È vero che l’Italia ha forte una ispirazione atlantica (nel 1977 la Camera vota all’unanimità la mozione che prevede “il quadro dell’alleanza atlantica e degli impegni comunitari come il termine fondamentale di riferimento della politica estera italiana”), ma una tale collocazione non ha mai ostacolato delle eclatanti prove di autonomia.
Già nel corso della gestione di De Gasperi affiora una “dinamica posizione dell’Italia nell’equilibrio internazionale post-bellico” (P. Pastorelli, La politica estera italiana del dopoguerra, Il Mulino, 1987). Per non parlare del “gollismo fanfaniano”, di quella che è stata chiamata “una via italiana alla distensione”, delle intuizioni di Moro sull’interdipendenza “in un mondo diventato più piccolo”, sulla integrazione di nuovi popoli (“accogliere il sottoproletariato dell’emisfero meridionale del globo”), sul “dialogo euro-arabo” e il riconoscimento della Cina, sulla democratizzazione delle relazioni internazionali con la necessità di “soffocare lentamente il bipolarismo” e ridimensionare la leadership unilaterale americana per delineare una “Europa come quarto polo della politica mondiale” (G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda, Il Mulino, 2016).

La seconda guerra fredda degli anni ’80 vide Craxi (e Andreotti) protagonisti, oltre che della implementazione delle scelte militari derivanti dalle appartenenze di campo, anche di un decisionismo dinamico nelle relazioni internazionali. “A nulla valevano le pressioni esercitate direttamente da Reagan su Craxi. Il capo del governo resisteva e rifiutava di consegnare il commando agli americani. Si apriva una crisi politica, ma venivano respinte le dimissioni del governo chieste dal Partito repubblicano. Il braccio di ferro di Sigonella suscitava aspre polemiche tra Roma e Washington; ma l’immagine di Craxi ne usciva sostanzialmente rafforzata perché la maggior parte dell’opinione pubblica apprezzava la decisione del capo del governo di difendere la sovranità e l’orgoglio nazionali” (G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Laterza, 2010, p. 245-6). Non c’era dunque forzatura alcuna nel mio cenno a Sigonella come momento alto di autonomia.

Nella crisi attuale, che ha un tratto di sistema e quindi è destinata ad imprimere un forte impatto nella struttura delle relazioni internazionali, emerge l’assenza di una politica volta alla tutela di una visione europea. Nitida è anche la rinuncia italiana a far valere degli specifici interessi nazionali per dare corso ad un sorprendente allineamento più alle posizioni del governo “antisemita di estrema destra” (formula di Macron) della Polonia che a quelle franco-tedesche o spagnole. Inquieta che il ruolo di capofila geopolitico-militare nel vecchio continente sia assunto dal premier inglese. Il fresco fuggiasco dall’Europa accentua il rumore delle armi in Ucraina, spinge per l’allargamento della Nato e l’accerchiamento inesorabile della Russia. E, visto che prima di entrare nella Nato, l’Ucraina, la Moldavia e la Georgia devono essere accolte nell’Unione europea, Johnson ha realizzato un vero capolavoro: a lui e agli Usa le grandi commesse militari per la guerra senza frontiere, all’Europa gli oneri considerevoli per ospitare dei paesi falliti, senza un’economia, una amministrazione ed una struttura civile.

Fantasticano non poco Cicchitto e Ranieri quando raccontano di una Ucraina culla della democrazia che suscita, proprio per il suo consolidato regime pluralistico-competitivo, il rancore dispotico di Putin spaventato dal contagio. Tutte le pubblicazioni internazionali descrivono Kiev come uno Stato quasi fallito, con una democrazia elettorale asfittica, con milizie militari ideologizzate (quelle di nazisti che leggono Kant piacciono solo a Repubblica e a Ferrara, che vuole posare un fiore sulla croce uncinata), con uno Stato di diritto assente, con una corruzione incontenibile, con una economia allo sfacelo, con una forte repressione del dissenso, con l’arresto di oligarchi filorussi e con la chiusura autoritaria dei partiti.

Con la promessa di un immediato ingresso nell’Ue di Ucraina, Moldavia e Georgia cambia del tutto la natura politica, culturale, sociale ed economica del progetto europeo. Nessuno dei paesi dell’est, dopo quasi vent’anni di lucroso inserimento nel laboratorio europeo, vanta peraltro robuste credenziali democratiche, una solida cultura dei diritti e del garantismo. Gli Stati dell’ex blocco orientale già generosamente accolti nell’Ue (Polonia, Ungheria, ecc.) rappresentano di continuo una spina nel fianco del costituzionalismo europeo. Aggiungere i territori immensi dell’Ucraina e gli altri sperduti nel Caucaso significa solo fare dell’Europa il bancomat della Nato. È evidente che, nella scelta degli Stati ex sovietici di farsi proteggere dall’ombrello della Nato, conta molto il miraggio del benessere europeo, l’immagine del consumo. La speranza è che i lavoratori dell’antico continente si accollino i sacrifici per avviare al mercato le popolazioni della steppa.

Che per democratizzare la Moldavia o la Georgia, e celebrare l’atlantismo come ideologia, si debba rinunciare all’autonomia regionale, incentivare delocalizzazioni, destinare fondi europei per l’avvio del mercato e così per reazione rendere un poco fascista e “sovranista” la vecchia Europa non è proprio uno scambio bello. Per questo forse nell’ostinato rifiuto delle sanzioni e nell’invocazione della via politica mi trovo in compagnia del 62 % degli intervistati (un altro venti non si esprime) che a Pagnoncelli risponde che è necessario “alleggerire il sostegno all’Ucraina e trovare un modo per dialogare con la Russia di Putin”. L’atlantismo ideologico e con l’elmetto indossato da Letta è largamente minoritario e percepito nell’opinione pubblico come disastroso.