L'ombra di un lungo conflitto
L’unica speranza di pace si chiama Europa
Per alimentare la prospettiva di un‘Europa del disarmo e della pace che riorienti il proprio destino verso la cooperazione e la solidarietà dei popoli non è sufficiente agitare il drappo del tormento morale che da settimane alimenta il dibattito pubblico italiano in particolare nel mondo cattolico e in alcuni settori minoritari della sinistra.
La fuoriuscita dalla Guerra Fredda ha alimentato la consapevolezza che i meccanismi di bilanciamento che erano stati alla base della fine di quel periodo storico dovevano essere riconsiderati alla luce delle nuove prospettive che un Mondo non più minacciato da uno scontro frontale fra due super potenze potesse offrire. È stata la logica di Pratica di Mare che riecheggiava la stessa logica di Yalta senza assegnare alla Russia il ruolo di primo piano che ha saputo conquistarsi in quasi tutto il Novecento ed anche prima.
Per questa ragione, più che “distrazione” verso le campagne putiniane nei confronti di regioni ribelli scappate di mano vi è stata una sotterranea o sottile compiacenza perché la Russia post-comunista aveva accettato per filo e per segno di partecipare agli utili economici della Globalizzazione (ricordiamo la sua entrata nel Wto prima e nei G-20 poi) alla larga cooperazione su molti campi dove le interdipendenze si sono fatte sempre più larghe. In definitiva le sole minacce di carattere militari che sono intervenute nell’Europa dopo la fine della guerra fredda sono state il portato delle crisi regionali, in particolare nel mondo arabo che hanno introdotto il rischio di escalation di carattere terroristico e che si sono manifestate attraverso attentati in qualche capitale europea ed alcuni in particolare attraverso forme mai conosciute prima; pensiamo al Bataclan, alla strage di Manchester, allo stesso attentato alla stazione di Madrid. L’Europa ha tardato nella costruzione di un proprio esercito e si è allontanata dall’idea di creare un’alternativa che in prospettiva sostituisse la Alleanza sorta nel dopoguerra sempre ritenendo che le minacce fossero di altro tipo ed altra natura.
La verità é che nel sottofondo ha sempre lavorato alacremente un tarlo che puntava al disgregamento dell’unità europea e della sua forza. Esso si è presentato in forme diverse, non violente, utilizzando le moderne tecnologie cibernetiche per generare la destabilizzazione approfittando delle crisi endogene di alcuni paesi (si pensi alla minaccia all’unita spagnola minacciata dall’insorgenza secessionista catalana, ai movimenti di massa in Francia prima e dopo il Covid, alle ondate populiste di estrema destra che hanno attraversato la Germania e la stessa Italia). Ora è evidente che il fronte europeo si trova ad affrontare un conflitto assai più incisivo di quanto non fosse la tragica dissoluzione della ex-Jugoslavia, meno influente dal punto di vista economico sul destino delle nazioni vicine. La dipendenza dal gas russo e la dipendenza dal grano ucraino già da sé sole sviluppano la preoccupazione più grande e i dilemmi più scottanti.
Eppure fu lo stesso Gorbacêv prima della caduta che si poneva il problema di creare una “casa comune europea” mirante alla formazione di un sistema di sicurezza paneuropeo che aiutasse a promuovere nuove relazioni economiche fra quelle che definiva le “due parti del medesimo continente”. Per questa ragione si è compresa poco l’attività disgregatrice di Vladimir Putin, prescindendo dalle mire territoriali che rivendica aggiustando a suo piacimento le ragioni della Storia. Non vi è stato in questi anni da parte dell’Europa alcun atto di natura politica, di natura economica e militare che possa dirsi ostile nei confronti della Russia, fatto salvo la sottolineatura nel ritenere indispensabile il ricorso al negoziato politico-diplomatico di fronte alle controversie regionali, che quando emersero con la guerra in Crimea furono stigmatizzate attraverso blande sanzioni.
Vedere nell’aggressione all’Ucraina un braccio di ferro con Washington che provoca danni indiretti all’Europa è una lettura troppo superficiale della realtà che abbiamo di fronte. Possiamo giustamente invocare la pace e il ritorno a un negoziato, esprimere una tendenza per l’avvenire che punti verso il disarmo e che riporti allo spirito che precedette la caduta del muro di Berlino e la costruzione del nuovo periodo di distensione ma deve essere chiaro che ciò potrà avvenire solo se esiste un’azione concreta e pro-attiva della presenza europea sugli scenari politici e militari che sollecitano dei segnali di vita e non delle neutralità passive e in definitiva improduttive. Nulla a che vedere con minacce a potenze che abbiamo considerato amiche e non ostili, ma sottolineature concrete di come e di quanto si sia disatteso lo spirito che ha regolato gli ultimi trent’anni che è stato, da parte dell’Occidente Europeo, improntato alla comune gestione della pace e della sicurezza e di cooperazione nelle aree di crisi per allontanare l’affermazione di regimi fanatici e illiberali. Per questa ragione Kiev non é Danzica ma non può passare senza reazione la scelta unilaterale di rompere un equilibrio difficilmente costruito per riorganizzare nuovi muri, nuove divisioni, nuove stagioni dove alla pace si sostituisce la corsa al riarmo ed alla globalizzazione pur disordinata si sostituisce un futuro pieno di incognite sul piano politico e territoriale che costituisce una minaccia costante per tutta l’Umanità per la sua pace perpetua e per la sua sopravvivenza economica.
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