Ritirarsi uccidendo per frustrazione, per odio e rabbia, è una pratica della guerra. Ma ritirarsi organizzando stragi in un unico rituale, se stiamo soltanto all’esperienza e alla storia, non possiamo evitare di notare una tipica firma digitale. Quando gli americani compivano stragi di civili in Vietnam, ricordo la più famosa, quella di Mi lai, i giornalisti americani lo venivano a scoprire, le televisioni americane lo documentavano, la gente scendeva in piazza caricata dalla polizia e tutto il mondo poteva conoscere sia la vergogna di una nazione civile i cui soldati si comportano spesso come barbari, ma anche l’orgoglio di una nazione civile ed esuberante di anticorpi, di reporter anarchici, di cineoperatori coraggiosi, fotografi, con cu si poteva documentare sia insieme l’orrore dell’America in guerra e con la fanteria, “boots on te ground”, in azione. A questo punto sarebbe d’obbligo citare una ventina anche più di casi orrendi in cui soldati, i mercenari, o combattenti partigiani commettono crimini efferati, segue elenco.

A noi sembra più pertinente illuminare alcuni dettagli che mostrano un setting sacrificale specifico: vediamo uomini (talvolta anche donne) catturati, selvaggiamente sfigurati dalla tortura non per ottenere informazioni ma per il piacere dell’afflizione, portati in un luogo sperduto con le mani legate dietro la schiena. Poi, il rituale prevede che le bestie sacrificali siano mese in ginocchio davanti a una fossa comune che in genere devono scavare essi stessi, e una pistola che cammina alle spalle del cerchio e che spara un solo colpo alla nuca. Ciascun corpo privato istantaneamente della vita tende ad accasciarsi cadendo, seguito dal colpo successivo che porta un alto corpo legato e così via fino al completamento. In genere il rito prevede che sui cadaveri, o corpi morenti, si versano palate di calce e poi terra quanto basta. È quello che è accaduto a Bucha? Sembra di sì. Diciamo “sembra” perché occorreranno indagini, raccolta di testimonianze e avvio delle procedure formali. Ma a questo punto che può tornare utile al lettore che sapere che cosa accadde nell’estate del 1940 in un luogo che si trova sempre in Ucraina, lontano da centri abitati: la foresta di Katyn.

In quella foresta, nel corso della guerra e quando alleati russi e tedeschi erano diventati nemici a causa della rottura del patto che li legava, furono trovati i corpi di circa sessantamila ufficiali dell’esercito polacco, più un centinaio di giornalisti. Chi era stato? “I russi!”, gridarono i tedeschi. “I tedeschi”, gridarono ancora più forte i russi. Poiché la guerra fu vinta dai russi e persa dai tedeschi, il massacro delle Fosse di Katyn fu attribuito alla consueta ferocia dei nazisti. La guerra e il dopoguerra passarono. Ancora in tempi più recenti venivi azzannato alla gola se soltanto t’azzardavi a mettere in dubbio la versione che addebitava ai nazisti anche questa orrenda strage. Poi finalmente l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico Michail Gorbaciov, avendo fatto della “glasnost” – che vuol dire trasparenza – la sua bandiera, rivelò al mondo due eventi che erano già noti ma sempre negati. Il primo era il patto d’alleanza militare fra Germania nazista e Russia comunista unite nel cominciare la Seconda guerra mondiale dalla stessa parte, finché una delle due parti – la Germania – non tradì l’altra, ribaltando le alleanze.

La seconda rivelazione, fu che l’eccidio coperto nelle fosse di Katyn era un delitto russo. Opera del Kgb che a quei tempi aveva per nome un’altra sigla: Nkvd.
Le modalità di quel modo di uccidere fecero scuola: i tedeschi adottarono un rituale nell’esecuzione degli ostaggi catturati dopo l’attacco partigiano a una colonna di gendarmi a via Rasella, gli ostaggi furono potati legati con le mani dietro la schiena e messi in ginocchio di fronte a una fossa comune. I nazisti tentarono di nascondere il loro crimine facendo saltare le volte delle cave Ardeatine. Accadde qualcosa di simile con l’uso dalle foibe carsiche a Trieste e dintorni: esecuzione questa volta di condannati legati l’uno all’altro, in modo tale che il primo giustiziato precipitasse nell’abisso delle rocce trascinando con sé a valanga tutti gli altri condannati a morte per precipitazione e spesso agonizzanti per giorni a causa delle ferite non sempre mortali.

Katyn si trova in Ucraina, come Bucha. I russi, va registrato, rifiutano qualsiasi responsabilità nell’eccidio sostenendo, come fanno da quando hanno iniziato questa invasione che non merita il nome di guerra, che gli ucraini, pur di riscuotere gli effetti della commozione internazionale che poi si materializza in aiuti ed armi, non esitano ad uccidere i propri figli, usarli come scudi umani, cannoneggiare i propri ospedali oncologici, i propri teatri e persino uccidere i propri soldati e compiere altri diabolici crimini.

Ma sarà difficile che la tesi russa trovi ascolto, perché i testimoni ci sono e dicono quel che mostrano le immagini: colmi di frustrazione, disperazione, odio e desiderio di rivalsa, alcune unità russe avrebbero voluto infliggere agli ucraini un dolore che va al di là della morte perché avrebbe colpito per sempre la loro memoria: il rituale. La cattura e la tortura di innocenti senza riguardo all’età e al genere in condizioni spietate e la condanna senz’altra ragione che l’odio e il desiderio di fare del male, la somministrazione del colpo alla nuca, la calce o la neve, l’abbandono, la negazione della verità e la barbara propaganda del sangue.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.