E' la stampa, bellezza
In Italia spuntano i “giornalisti sotto copertura”: 3 anni di barbe finte per scoprire qualche saluto romano e disinvoltura su piccoli rimborsi elettorali
Devo ammetterlo, ignoravo l’esistenza dei “giornalisti sotto copertura”, quelli che si insinuano all’interno di un partito per denunciarne le malefatte. Me li immagino come barbe finte, agenti segreti pagati dallo Stato per infiltrarsi in una cosca mafiosa. E magari scovare il nascondiglio di Matteo Messina Denaro. Lo sappiamo tutti che certi partiti sono peggio di Cosa Nostra, e che certi giornalisti sono più abili della Dia e del Ros messi insieme.
Mi ha illuminato sull’importanza di questi colleghi “coperti” la puntata di giovedì sera di Piazza Pulita, di cui, devo ammetterlo, ho visto solo una parte perché sono debole di stomaco. C’era un giornalista di Fanpage, che non ho ancora ben capito che cosa sia, se non che è nato e cresciuto con i social, che a quanto pare si è infiltrato nella peggiore pancia di Fratelli d’Italia e, a due giorni dal voto amministrativo, ha sparato qualche bombetta sulle elezioni di Milano. Con la complicità del conduttore, di cui fatico sempre a ricordare il nome (in analisi si chiama rimozione), ha fatto, senza problemi di coscienza, il suo sporco lavoro. Le bombette cascano su un praticello informativo in cui stanno già pascolando il caso di Luca Morisi, lo spin doctor difeso dal suo amico Salvini in veste garantistica, e la sentenza di condanna dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, difeso da Enrico Letta, che in via eccezionale stabilisce che le sentenze possono anche essere commentate. Mica stiamo parlando di sciocchezzuole come il “processo trattativa”, che ha avvelenato il Paese per qualche decennio. Su quello aspettiamo le motivazioni.
Su Lucano (anch’io critico la sentenza) abbiamo certezze. Opposti estremismi, potremmo definire così gli atteggiamenti del leader della Lega e quello del Pd. Fanno venire i nervi per la loro prevedibilità: potremo mai vedere Enrico Letta compiacersi per il fatto che Marcello Dell’Utri non solo non ha commesso il fatto (qualcuno di noi lo sapeva benissimo) ma è stato pure assolto con quella formula così esplicita e senza ombre? O Matteo Salvini che, pur confermando, se proprio lo ritiene indispensabile, di essere sempre e comunque contro tutte le droghe (dell’ubriachezza molesta invece che cosa pensa?), dispiacersi perché le carceri sono piene di tossici piccoli spacciatori e già che c’è spendere una parola in favore dei diritti di Mimmo Lucano? Una volta si diceva che non si può cavare sangue dalle rape, il che significa che non si può pretendere di far uscire i militanti o dirigenti di partito dal loro assurdo settarismo (parola antica) e condurli per mano sulla strada del garantismo. Quello nei confronti di tutti, ovviamente, quello non seguito dal “però”. Forse potremmo pretenderlo, sì pretenderlo, invece, dai nostri colleghi giornalisti.
Da antica cronista giudiziaria desidero mettere in guardia i miei soliti quattro lettori, di cui spero non siano nel frattempo diminuiti, magari per noia (uffa, ancora con il garantismo!), in corso d’opera, dal pensare che qualcuno ce l’abbia con i commentatori. Ognuno deve esser libero delle proprie opinioni, ci mancherebbe. Il problema sono le cronache, il giornalismo cosiddetto d’inchiesta e ora anche le “coperture”. È lì che si annida la serpe delle forche caudine. L’infiltrato di Fanpage si è travestito ben tre anni fa da imprenditore milanese desideroso di finanziare un partito. Per tre anni si è finto amico di quelli di Fratelli d’Italia a Milano, ha frequentato uno che, senza offesa, non conta molto nella gerarchia del partito, cosa che nella sede di Fanpage a Napoli non sono tenuti a sapere. Roberto Longhi Javarini è un bravo ragazzo, lo dico anche se so bene che si dichiara apertamente fascista (scusa, nonno socialista di Parma) e che è stato anche condannato a due anni per apologia. Se l’infiltrato ha visto in qualche sua riunione dei saluti romani o peggio ha sentito qualche frase razzista, sappia che la cosa finisce lì. In privato. Anche se ovviamente non ci piace, e anche di più.
Più delicato è il fatto che nella registrazione si senta Carlo Fidanza, capogruppo di FdI a Bruxelles, trattare in questo modo il percorso di un contributo elettorale per la loro candidata al Comune di Milano alle amministrative: «Le modalità sono: versare nel conto corrente dedicato. Se invece voi avete l’esigenza del contrario e vi è più comodo fare del black, lei si paga il bar e col black poi coprirà altre spese». Discorso un po’ assurdo, dal momento che sarebbe bastato dire: organizziamo un evento e lei lo finanzia. Ancora più maldestro l’intervento di Longhi Javarini, che parla addirittura di lavatrici. Tanto che il partito dei Verdi, giusto per battere in lestezza quelli dei Cinque Stelle, ha presentando un esposto in procura ipotizzando addirittura il lavaggio di proventi mafiosi. E qui il cerchio della follia si chiude. Senza giustificare niente e nessuno (ma chi è senza peccato scagli la prima pietra), c’era bisogno di fare la barba finta per tre anni per scoprire qualche saluto romano e una certa disinvoltura, per lo meno a parole, su piccoli rimborsi elettorali? Pure la rete di La7 ha dedicato all’argomento una serata. E poi ieri sono fioccate le reazioni.
Giorgia Meloni ha fatto la parte dell’intransigente, ma ha preteso prima di visionare tre anni di registrazioni, Fidanza si è autosospeso, ben sapendo di far parte di un partito non certo di seguaci di Calamandrei, i Cinquestelle si sono scatenati (ma non fa notizia) e la responsabile milanese del Pd ha perso un’occasione per tacere (ma non avete già la vittoria in tasca?), ma è perdonabile causa la giovane età. Tutto previsto e prevedibile. Questo è il clima, del resto. Così anche Mimmo Lucano, cui si poteva quanto meno risparmiare il reato associativo, neanche si trattasse di un affiliato alla ‘ndrangheta, e si poteva magari concedergli almeno le attenuanti generiche, si è messo a fare il retroscenista, attribuendo a un “magistrato molto importante” e a “un politico di razza” la vera responsabilità per la sua condanna.
Motivo? L’invidia per il suo successo. E intanto su Morisi aleggia il sospetto che sia stato davvero incastrato, non dal mondo politico, ma semplicemente dagli avidi ragazzi romeni. Già, ma non sono stati certo loro, con un mese e mezzo di ritardo rispetto ai fatti, a passare le veline ai fratelli coltelli Corriere e Repubblica per lanciare la bomba tra i piedi di Matteo Salvini in campagna elettorale. Che cosa è, anche questo giornalismo d’inchiesta? O di copertura? È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente, niente.
© Riproduzione riservata