La prende in braccio, la tira su – con qualche tentennamento del bicipite – e sorridono insieme in posa selfie. Sarebbe bello, per Giorgia e Matteo, chiudere così, almeno per le prossime 60 ore, l’anomala campagna elettorale delle amministrative 2021. Ieri, per fortuna, a Spinaceto, periferia della Capitale, si sono visti tutti e tutti insieme. Nessun problema di ritardi con treni ed aerei come invece era successo il giorno prima tra molti nervosismi nella conferenza stampa gemella di fine campagna a Milano. I due leader hanno provato a cancellare tutto con quell’abbraccio da “gigante e la bambina”. Anche se l’originale – 2012, auditorium della Conciliazione, congresso fondativo di Fratelli d’Italia – tra Guido Crosetto e Giorgia Meloni è e resta inimitabile.

Il problema è che dietro quell’abbraccio stavolta c’è la condivisone di uno status politico oltreché umano. Che l’altro giorno Silvio Berlusconi ha sintetizzato con un lapidario: «Salvini e Meloni non potranno mai essere premier». Affermazione subito smentita ma con il pregio della chiarezza della verità. Perché questi ultimi giorni hanno messo a nudo una verità che aleggia da tempo ma non era ancora tempo di tirare fuori: Giorgia e Matteo non hanno capito il vento e hanno perso l’occasione. Simul stabunt, simul cadent, stanno insieme e cadranno insieme. Con sfumature e destini diversi. Però. La pandemia ha messo in evidenza che i nazionalismi, con tutto quello che si portano dietro, non possono essere risorse. Le elezioni europee, prima ancora della pandemia, e i risultati in Germania adesso dimostrano che le destre non hanno sufficiente cittadinanza per ambire a ruoli di governo. Meloni è andata avanti dritta lungo questa strada.

Ha rivendicato “coerenza”: è diventata presidente del partito dei Conservatori europei sponsorizzata da polacchi e ungheresi; è rimasta orgogliosamente fuori dal governo Draghi. Ora però per lei, come ha ben spiegato il medievalista Franco Cardini intellettuale curioso della destra, è scritto un destino da “perdente di successo”. Lei è brava e simpatica. Piace. Ma intorno ha il deserto di una classe dirigente che non si è mai affrancata dal milieu di una destra nazionalista, razzista e sessista. E non è casuale se dopo Cardini ieri l’inchiesta di Fanpage ha documentato non tanto i sospetti di finanziamento illecito della campagna elettorale su Milano ma il becerume nazi-fascista dei ritrovi al bar di quelli di Fratelli d’Italia.

Carlo Fidanza, l’europarlamentare meloniano che, secondo il video di Fanpage, avrebbe gestito o comunque sarebbe stato a conoscenza del sistema del finanziamento illecito, ieri si è autosospeso dal partito negando ogni addebito e appellandosi al fatto che è stato fatto «un montaggio mirato di almeno cento ore di girato» dove sarebbe chiaro, invece, che Fidanza non ha mai incentivato certi metodi. Su epiteti, modi di dire, risate alle spalle di giornalisti non amici (come Berizzi di Repubblica), Fidanza si è scusato derubricando il tutto a modi di dire senza alcuna sostanza. Ed è già qui il problema: il significato delle parole. Che vengono pronunciate, a cui non si dà peso e che però innescano comportamenti conseguenti. Simul stabunt, simul cadent si diceva. Il fatto è che fare campagna elettorale ai tempi della pandemia e del governo Draghi ha messo a nudo tutti i limiti della destra di Salvini e Meloni. Loro si offendono se la definisci “sovranista” e “antieuropeista” e quindi no vax e no pass e no euro nelle sue tante declinazioni che di quelle categorie sono alcuni aspetti specifici. Per Meloni, quindi, molti pronosticano un futuro da Marine Le pen italiana: 15-20% (che è sempre tanto) ma mai sufficiente per governare.

Un po’ diversa la situazione di Salvini. Il leader della Lega ha capito che l’aggettivo “moderato” deve diventare “sostanziale” se si tratta di ambire alla premiership di un paese fondatore dell’Europa. La decisione di appoggiare il governo Draghi è tutta qua: un investimento per il futuro, per il “centrodestra di governo”, magari verso il Ppe.

Ma Salvini, Morisi o non Morisi, Bestia o non Bestia, non ce l’ha fatta a lasciare da parte le scorie della destra. Sette mesi dentro anche contro il governo lo hanno logorato. E l’inchiesta Morisi altro non è che l’inchiesta gemella di quella che vede protagonista Fidanza: il cartellino giallo che oltre non possono andare. A meno che non cambino. A meno che non accettino l’offerta di Berlusconi che ieri sulla pagine de Il Giornale ha ben spiegato perché «senza Forza Italia, senza la forza liberal-moderata-europeista, senza il Zentrum alla tedesca ancorato nel centro destra ma anche nella grande famiglia del Partito popolare europeo, quei due non vanno da nessuna parte». Potrebbe quindi essere troppo tardi per correggere la propria storia. Da qui la mestizia dell’abbraccio di ieri.

Siamo arrivati così all’ultimo giorno di una campagna elettorale amministrativa molto nervosa. Diciamolo chiaro: in palio non ci sono solo i 1200 sindaci e relative giunte. In verità queste amministrative mettono in palio una nuova geografia politica. Al Nazareno, la casa del Pd, si aspettano colpi di coda dello scontro interno alla Lega, ma i più esperti (ad esempio Franceschini) avvertono che se mai ci saranno, verrebbero regolati dopo febbraio, ovvero dopo l’elezione del Capo dello Stato. Sono tanti gli indicatori che dovranno essere pesati a partire da lunedì sera. A destra e a sinistra. Nel centrosinistra occhi puntati sulle percentuali del M5S a Roma e a Torino, dopo i bagni di folla richiamati dal tour di Conte: il movimento sarà ancora vivo e continuerà ad essere un interlocutore credibile per gli alleati? Che farà Grillo? Analogo confronto, sempre nel Pd, tra le liste di Roma e Torino: nella capitale sabauda si è fatto avanti un partito più autonomo e fortemente anti 5 stelle, in assoluta controtendenza nazionale; a Roma il centrosinistra è diviso in tre, Calenda, Gualtieri e Raggi.

Occhi puntati sul confronto muscolare nel centrodestra a Milano: riuscirà Giorgia Meloni a battere la Lega giocando nella sua storica roccaforte? Un eventuale sorpasso di Fratelli d’Italia acuirebbe senza dubbio i problemi di Salvini e metterebbe sempre più Meloni nel mirino. Così come la tenuta di Forza Italia oltre il 5% manderebbe all’aria i progetti egemonici di Salvini sul partito di Berlusconi. Che infatti ha sempre congelato le pretese sul partito unico. Altro quesito molto attenzionato riguarderà Calenda: quale sarà la percentuale finale del leader di Azione nella Capitale? Nel caso fossero confermate le percentuali attribuite dai sondaggi, il prossimo passo dell’ex ministro riguarderebbe la costituzione di un polo centrista, con ricadute che si farebbero sentire anche dalle parti del Nazareno. Letta, infatti, per una fortuita congiuntura astrale, rischia di essere il vincitore di questa tornata elettorale. Ma per fare cosa? E andare dove? Verso la sinistra, come vorrebbero Bersani ma anche Orlando e Provenzano? O verso il centro progressista di Renzi e Calenda? Poi dipenderà tutto, come sempre, dalla legge elettorale. I fan del proporzionale stanno crescendo a vista d’occhio.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.