Pubblichiamo l’intervista a Gianni Minà che lo stesso autore aveva realizzato nel giugno del 2017 per “Inchiostro”, il periodico della Scuola di Giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Minà, giornalista e documentarista, è morto ieri, a 84 anni, “dopo una breve malattia cardiaca. Non è stato mai lasciato solo, ed è stato circondato dall’amore della sua famiglia e dei suoi  amici più cari”, si leggeva nel post sui canali social ufficiali da cui è emersa la notizia. Dopo aver esordito nel 1959 con il quotidiano “TuttoSport” Minà ha attraversato circa sessant’anni di attività giornalistica ai massimi livelli. Ha intervistato protagonisti dello sport, dello spettacolo e della cultura, della politica. Con alcuni di questi aveva stretto amicizie durate una carriera intera. È stato un testimone del Novecento.

“Non sono mica un tuttologo”, risponde e sorride Gianni Minà. L’ennesima domanda riguarda Muhammad Alì, o forse il Subcomandante Marcos, oppure i Beatles. Il punto è che è difficile resistere alla tentazione di chiedere di 60 anni di carriera che hanno attraversato gli argomenti più disparati. Le condizioni per replicare l’intervista di sedici ore che lo stesso giornalista fece nel 1987 a Fidel Castro ci sarebbero tutte, ma evidentemente non è il caso. Si finisce così a parlare del ruolo del giornalismo, tema presente anche nell’ultimo libro di Minà dal titolo Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo potere e libertà. Un lavoro che attraversa personaggi e fatti che hanno segnato un’epoca. Da Barack Obama a Hugo Chávez passando per Papa Francesco. L’opera viene presentata a Napoli al centro sociale “Scugnizzo Liberato”, lo stesso posto che nel 1984, quando ancora era un carcere minorile, ospitò una storica puntata di Blitz. Il cortile è pienissimo, centinaia di persone.

Napoli le ha dimostrato ancora una volta un affetto sincero. Cos’è per lei questa città?

È un posto speciale. Una terra di contraddizioni e creatività che non perderà mai il suo ruolo di capitale. Del resto, ogni dieci anni vi nasce un artista che dà vita a una nuova musica popolare.

Nel suo libro torna a parlare di giornalismo. Che tipo di giornale fonderebbe se dovesse ricominciare oggi?

Non fonderei proprio niente. Sarebbe uno spreco di energie perché il giornalismo è finito, non serve più, non racconta più la verità. Le nuove tecnologie hanno peggiorato tutto e continueranno a farlo. Riuscire a dominarle è un’utopia. Oggi il ricco è tornato a soverchiare il più povero. E Trump è il rappresentante di questa tendenza.

Ma quando incominciò avrà avuto un altro entusiasmo. Ricorda la sua prima intervista?

Era il 1960, c’erano le Olimpiadi a Roma. Dovevo intervistare “la locomotiva umana”, il maratoneta cecoslovacco Emil Zátopek. Volevo incontrarlo e non avevo messo in conto di non riuscirci. Avrei trovato un modo. C’era questo cecoslovacco nella hall dell’albergo dove si trovava la nazionale olimpionica. Gli chiesi di fare da interprete. Una volta uscito da quell’albergo mi sentivo un dio: avevo parlato col mito della corsa dell’epoca.

Altre interviste sarebbero arrivate, anche più importanti di quella. Incontri di lavoro dai quali sarebbero nate delle vere e proprie amicizie. Come con Castro, Maradona o Muhammad Alì. Come riusciva a costruire certi rapporti?

Con il rispetto, credo di aver sempre dato e ricevuto rispetto. In questo modo, quello che non ti aspettavi di venire a sapere, te lo diceva direttamente l’intervistato. Una volta, in Argentina, mentre gli psicologi visitavano Maradona all’inizio della sua battaglia contro la cocaina, Diego mi disse di filmare tutto. Ma alla fine io non avrei mai usato quel materiale perché credo che nessuno abbia il diritto di saccheggiare l’intimità di una persona. Da questo punto di vista il giornalismo di oggi è ridicolo, non ha etica. E poi si stupiscono se la gente risponde male. Non condivido l’aggressività con la quale i giornalisti si pongono oggi.

Crede che le amicizie con i suoi interlocutori possano condizionare il suo lavoro?

Anche la pressione che hai quando intervisti uno sconosciuto può condizionare il risultato. E poi è inevitabile che tra le persone nasca simpatia o antipatia.

Per questo motivo si disse che quella a Castro dell’’87 fosse una “intervista in ginocchio”?

Innanzitutto quello era un colpo mondiale. Il Corriere della Sera smentì il giorno dopo le 20 righe dove si usava quell’espressione. A riguardo vinsi anche una causa con un dissidente cubano mantenuto in Italia dai socialisti. Il giudice di Trento, nel dispositivo della sentenza, non solo mi diede ragione ma anche l’elogio per come era stata condotta quell’intervista.

Crede che il giornalista possa essere imparziale?

Nessuno può essere realmente imparziale. È già tanto riuscire ad essere onesti.

Secondo lei Nicolás Maduro e il suo governo hanno fatto abbastanza per evitare la crisi attuale del Venezuela?

Contro le grandi agenzie americane non si può niente. Fanno saltare i presidenti come tappi. È difficile fare qualcosa quando c’è qualcuno che non ti fa arrivare da mangiare e fornisce le armi all’opposizione.

Ma le armi le hanno anche i colectivos che appoggiano il governo.

Ma quando si armano persone che non hanno morale finisce male. Il Venezuela prima di Chávez era quello del Caracazo, un Paese senza ospedali né scuole. Oggi c’è un accerchiamento contro Maduro che nel 2013 ha vinto le elezioni. Io ho anche firmato una lettera contro Amnesty International che accusava le autorità venezuelane di violare i diritti umani e la democrazia. L’hanno firmata anche Adolfo Pérez Esquivel, Nobel per la pace carcerato e torturato dalla dittatura argentina, e Frei Betto, teologo della liberazione brasiliano. Anche loro sono dei criminali?

Cosa pensa dei tanti venezuelani che lasciano il lor Paese?

In certe condizioni tutto il mondo scappa.

Nel 2007 ha ricevuto il premio alla carriera del Festival di Berlino. A un certo punto ha cominciato a riscuotere più consensi all’estero che in patria. Come se lo spiega?

Sono stato epurato e ancora mi devono spiegare il perché. Ma invece di fare la vittima sono andato avanti. Ho lavorato con Robert Redford e il regista Walter Salles al film I diari della motocicletta sul giovane Che Guevara. Poi su altri documentari.

C’è un personaggio dell’attualità che vorrebbe intervistare?

Il mio rimpianto resta Nelson Mandela, nessuno mi ha fatto cambiare idea. L’ho conosciuto ma non ho fatto in tempo a fare la lunga intervista che avevamo programmato.

A cosa sta lavorando ora?

Mi sto occupando del Centro Che di l’Havana. Camilo Guevara, il figlio del Che, mi ha chiesto di dargli una mano perché vuole che sia completamente funzionante per l’anniversario della nascita del padre. L’anno prossimo saranno novant’anni.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.