Dalla prima di Biden come presidente in Europa allo scontro tra la Nato “bideniana” e il Dragone cinese; da Israele senza più Netanyahu alla guida, alla “fuga” dell’Occidente dall’Afghanistan. Un giro del mondo che Il Riformista fa in compagnia di Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista di geopolitica italiana.

La prima da presidente di Joe Biden in Europa. Qual è il segno geopolitico prevalente di questo “tour”?
L’idea di Biden, più volte espressa, è quella di “America is back”, sostanzialmente siamo tornati e quindi riformare con l’Europa un insieme occidentale. Dall’idea alla prassi c’è qualche “leggero” ostacolo.

Quali in particolare?
Innanzitutto gli Stati Uniti e i vari Paesi europei fra loro e anche internamente, non sono mai stati così divisi negli ultimi decenni come oggi. Quale America è tornata e quale tipo di Paesi europei trova. Faccio un esempio: il messaggio anticinese è un messaggio molto forte, da una parte, ma che ha trovato diversi bemolle da parte europea. La signora Merkel ha detto che non bisogna sopravvalutare la minaccia cinese, curiosamente facendo eco alla stessa frase venuta nelle stesse ore da Pechino «non dovete sopravvalutare la minaccia cinese». Quanto a Macron, ha ricordato che la Nato non è una organizzazione politica ma è una organizzazione militare, e sono due cose ben diverse. Una cosa è il pericolo del riarmo cinese su cui i paesi Nato hanno posto l’accento, altra cosa sono le relazioni politiche ed economiche. In buona sostanza, ci sono idee diverse sulla Cina e c’è una maggiore unità oggi rispetto alla Russia, vedremo poi se su questo versante accadrà qualcosa nel vertice di domani (oggi per chi legge, ndr) a Ginevra tra Biden e Putin.

Per restare sul versante cinese. Nel G7 in Cornovaglia, il presidente del Consiglio Mario Draghi sembra aver abbandonato la Via della Seta. È il prezzo da pagare per un nuovo atlantismo made in Italy?
In realtà la nostra adesione alla Via della Seta è sempre stata, finora almeno, formale. Non mi risultano grandi progetti in comune fra Italia e Cina. L’idea nostra di farlo anche surrettiziamente rispetto all’alleato americano, si è dimostrata disastrosa. È cambiato l’approccio italiano nella forma e nel tono ma nella sostanza zero era e zero rimane, o zero virgola qualcosa.

In precedenza lei ha fatto riferimento alla Russia. In vista del vertice di Ginevra, Biden ha affermato: «Dirò a Putin che ci sono linee rosse da non superare». Verrebbe da dire che la strada di tanti presidenti Usa, Democratici e Repubblicani, è stata lastricata da “red line” rimaste il più delle volte tali solo sulla carta. Sarà così anche con Biden?
Dipende dove vengono messe queste linee. È un termine sconsigliabile, perché più che obbligare gli altri, obbliga te stesso e quindi ti obbliga a non rispettarti. La questione fondamentale è l’adesione dell’Ucraina alla Nato. Il vertice di Bruxelles ha lasciato aperta la questione. Biden ha detto che eventualmente l’Ucraina potrà aderire alla Nato quando risolverà i problemi di corruzione, il che vuol dire probabilmente una garanzia eterna alla Russia che l’Ucraina non entri mai nella Nato, ma anche questa è una questione da interpretare. L’importante è che dal punto di vista ucraino la porta non è stata chiusa, e dal punto di vista russo ancora non è stata aperta. Anche qui, rispetto alle parole andranno verificati gli atti. Per esempio, se gli americani vorranno installare una base, come si è detto nei mesi scorsi, in Ucraina occidentale, questo sostanzialmente cambierebbe l’equazione strategica nella regione.

Una delle aree più calde al mondo resta il Medio Oriente. Da domenica scorsa Israele ha un nuovo governo che ha mandato all’opposizione il Primo ministro più longevo nella storia dello Stato ebraico: Benjamin Netanyahu. Si può parlare di una svolta storica nella politica israeliana?
Si può parlare probabilmente, perché con Netanyahu non si sa mai, della fine di un’epoca, non dell’inizio di una nuova. D’altronde una coalizione così eterogenea non si è mai vista non solo nella storia d’Israele ma penso anche nella storia delle democrazie mondiali: dall’estrema sinistra all’estrema destra, mancano solamente la grande maggioranza del Likud che è rimasta con Netanyahu e i partiti haredim. Malgrado ciò, il governo Bennett-Lapid non ha una maggioranza. Ha 60 voti su 120. Si è salvato in qualche modo grazie all’astensione di un deputato arabo israeliano Ra’am. Credo che poi all’atto pratico, una volta realizzato il suo programma, cioè far fuori “Bibi”, bisognerà vedere cosa concretamente potrà fare. Lo vedremo in queste ore anche da come gestirà la Marcia di Gerusalemme.

“La Questione israeliana”. È il titolo, e il tema, dell’ultimo numero di Limes da alcuni giorni nelle librerie e nelle edicole. In cosa consiste questa “Questione” ed è essa risolvibile?
Consiste nella divisione interna alla società israeliana nel suo complesso, che è stata autorevolmente messa in rilievo nel giugno 2015 dal presidente Reuven Rivlin con un discorso in cui ha rimarcato il pericolo che in Israele si cristallizzino 4 tribù, così le ha chiamate: gli ultraortodossi, o haredim; i nazional religiosi; gli arabi israeliani, o arabi in Israele come sarebbe più corretto definirli e la parte, ancora maggioritaria, laica, secolare. Il problema di fondo è che questi 4 gruppi hanno 4 sistemi di formazione, 4 sistemi scolastici che in particolare nell’educazione primaria determinano poi il rapporto con il Paese, che è un rapporto diverso. Nelle scuole haredim, per esempio, non si studia inglese, non si studia matematica, si studia un improbabile ebraico e, soprattutto, si sa che non si è costretti a fare il servizio militare, cosa che vale anche per gli arabi. Allora, un Paese che cresce lungo 4 pedagogie nazionali difficilmente può produrre una nazione coesa. E questo lo si è visto in maniera abbastanza plastica negli scontri di maggio nelle cosiddette città miste e a Gerusalemme. Colto con la guardia bassa dalla ribellione dei suoi arabi, lo Stato ebraico vede incrinarsi lo status quo. Scopre che il male capace di ucciderlo non viene da fuori. Ce l’ha dentro. D’altro canto, lo Stato ebraico ha fatto della lotta permanente per vivere il suo marchio identitario. Ma senza comune base patriottica l’orizzonte è oscuro. Condizione minima del patriottismo è una pedagogia nazionale. Quattro pedagogie tribali producono quattro sub-nazioni.

Lei insiste mondo sul “pericolo” interno…
Vede, a mio avviso Israele paga l’illusione di aver disinnescato la bomba araba all’interno come ha congelato quella dei Territori. Gli arabi interni, dei quali molti preferiscono definirsi palestinesi o arabi in Israele – specificando la residenza, non l’appartenenza – sono potenzialmente più pericolosi dei “fratelli” d’Oltremuro. Perché Israele li ha in casa. Nessuna barriera di separazione può proteggere gli ebrei dagli aggressori dell’appartamento accanto, a meno di non voler sezionare Israele in stile cisgiordano.

Concludiamo questo giro d’orizzonte planetario, in un altro fronte caldissimo: l’Afghanistan. L’Italia ha ammainato bandiera, gli Stati Uniti porteranno a termine il loro ritiro in una data emblematica, l’11 settembre (2021). Più che un ritiro questa appare come una “fuga”. Cosa è l’Afghanistan vent’anni dopo l’inizio della guerra dell’Occidente?
Direi che fondamentalmente la situazione è in larga parte in mano ai Taliban, il che vuol dire al Pakistan. Lo era prima, rimane così. La nostra presenza intendeva essere una manifestazione di solidarietà, vicinanza e partecipazione all’America attaccata l’11 Settembre, non so quanto questo sia stato effettivamente valutato e apprezzato dagli americani. Purtroppo abbiamo avuto diverse vittime, risultati pratici per noi onestamente non ne vedo, come era d’altronde abbastanza scontato dato che non mi risultano interessi italiani in Afghanistan da proteggere. Il ritiro doveva essere fatto prima, ora vedo che c’è il tentativo di affidare ai turchi una sorta di supervisione che i turchi hanno accolto ovviamente con gioia perché loro invece nella regione sono presenti e d’interessi ne hanno parecchi. Noi non siamo la Turchia e quindi eccoci qua.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.