La prima missione in Europa di Joe Biden da presidente degli Stati Uniti. Le priorità, i dossier più caldi, la discontinuità con il suo predecessore alla Casa Bianca. Il Riformista ne discute con Massimo Teodori, professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti. Tra i suoi libri sull’America, ricordiamo: Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio, 2017); Obama il grande (Marsilio, 2016); Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Mondadori, 2004) e, dal 20 maggio in libreria, Il genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale (Rubettino, 2020). Il programma dei lavori del presidente Usa prevede la partecipazione al G7 che si svolgerà in Cornovaglia dall’11 al 13 giugno e proseguirà il suo tour diplomatico europeo che avrà come appuntamento cardine il bilaterale in Svizzera con il presidente russo, Vladimir Putin.

Joe Biden è arrivato in Europa, la prima volta da presidente. Professor Teodori, quali sono i risvolti di questo tour europeo del capo della Casa Bianca?
Biden viene dopo la frattura che c’è stata con Trump rispetto all’Unione europea, agli Stati europei e all’Alleanza atlantica. Noi dobbiamo partire dal fatto che nel quadriennio di Trump praticamente sono stati interrotti i rapporti di alleanza storici fra una sponda e l’altra dell’Atlantico. L’obiettivo principale di Biden, che è anche congeniale alla sua storia di presidente della Commissione esteri del Senato, è quello di riallacciare i rapporti con l’Europa sotto diversi aspetti…

Quali i più significativi?
Uno è l’aspetto delle democrazie. Un secondo riguarda la questione NATO. Che fare di essa? Come riprendere un cammino comune di questa alleanza che, ricordiamolo, è l’unica struttura che tiene insieme Stati Uniti e i Paesi dell’Europa? L’unica struttura che resiste ormai da sessant’anni con tutte le sue caratteristiche e incroci che hanno determinato tante cose nei Paesi europei, non solo per quanto concerne gli aspetti militari. Non possiamo negare che ci sono degli interessi economici e geopolitici contrastanti tra alcuni Stati europei e gli Usa, in particolare la questione del North Stream 2 che lega molto strettamente la Germania alla Russia ed è contrastato dagli Stati Uniti. Altro interesse divergente è quello relativo alla Turchia che sta giocando una carta azzardata ma molto incisiva nel Mediterraneo che riguarda tra l’altro anche l’Italia nei suoi rapporti con la Libia. La Turchia è ancora un membro della NATO e gli Stati Uniti non hanno interesse, almeno per ora, a rompere questa partecipazione di Ankara all’Alleanza atlantica perché in una qualche maniera costituisce un contro bilanciamento dei rapporti tra un paese strategico nel Mediterraneo con la Russia. Biden tenterà di risolvere queste contraddizioni con alcuni Paesi europei comprese quelle con la Francia relative all’aumento del finanziamento alla NATO. In questo senso l’Italia è il Paese che ha più interesse e meno contraddizioni nel rapporto con gli Stati Uniti soprattutto oggi sotto la guida dell’”atlantico” Draghi. Un terreno di convergenza tra Usa ed Europa è rappresentato dalla condivisione del contrasto al cyberterrorismo e alle guerre “informatiche”. Tutto questo ha anche un grande valore simbolico…

Vale a dire?
L’America non è più quella dell’”America first” di nefasta trumpiana memoria, cioè facciamo quello che ci pare, arrangiatevi e via di seguito, ma il simbolo della nuova presidenza è stringiamoci di nuovo insieme, europei e americani, soprattutto perché dobbiamo affrontare la sfida cinese e, un po’ sotto come importanza, la sfida russa e quella mediorientale.

Proprio su questo. Aperture e chiusure. Biden ha anche affermato, cito testualmente: «Ora fermiamo gli interessi di Russia e Cina».
Biden ha sottolineato la parola interessi rispetto alla Russia e alla Cina, perché l’America sa benissimo che gli Stati europei, ognuno per conto proprio, vedi ad esempio il problema del petrolio con la Russia e del commercio estero in generale con la Cina, tendono a stabilire i propri canali, i propri scambi commerciali in un senso o nell’altro. Siccome gli Stati Uniti vogliono arginare l’espansione della Cina che, notoriamente, sta acquistando i porti, le infrastrutture, i trasporti non solo in Africa e in Asia ma fin dentro l’Europa, ecco allora Biden avvertire i partner alleati europei che se sviluppano troppo gli interessi con Mosca e Pechino, l’America non potrà ristabilire quella vecchia amicizia che è militare, economica e politica, che ha caratterizzato la nostra storia dal secondo dopoguerra ad oggi.

Il primo impegno del presidente Usa sarà domani (oggi per chi legge, ndr) in Cornovaglia per il G7. Gli Stati Uniti acquisteranno cinquecento di milioni di dosi del vaccino Pfizer-BioNTech per donarle ai Paesi più svantaggiati. È questo, secondo quanto anticipa il Washington Post, il piano per la condivisione dei vaccini che Biden intende annunciare in questa occasione. Qual è la valenza geopolitica di questa “diplomazia dei vaccini” perorata e praticata da Biden?
È un’altra arma degli Stati Uniti rispetto ai Paesi più poveri per contrastare l’influenza cinese.

Il Biden che arriva in Europa è un presidente che tassa i super ricchi, che investe in istruzione, infrastrutture, sanità pubblica e che fa della lotta alla corruzione una mission cruciale della sua presidenza. Agendo così, Biden non può rappresentare un modello per i progressisti europei, Italia compresa?
Questo è un aspetto della politica interna di Biden, cioè Biden ha voluto molto sottolineare, arrivato alla Casa Bianca, che non è quel centrista che lascia tutto quanto andare in mediazioni di ogni tipo, ma è diventato una figura che ho avuto già modo di definire molto radicale. Questi sono i cambiamenti dei presidenti o dei grandi personaggi quando arrivano al massimo del potere, che si sentono più liberi di fare cose le più riformatrici e più radicali di quanto abbiano fatto prima nella carriera politica. Si tratta di politica interna, certamente, ma essendo gli Stati Uniti il Paese che poi dà sempre in la in tante cose, ecco che scelte strategiche in politica interna finiscono per riflettersi anche sull’Europa. E questo lo si vedrà alle prossime elezioni tedesche, innanzitutto, e poi in quelle francesi. Perché il timore di Biden è che dopo l’uscita di scena della Merkel e dopo il passaggio di Macron, ci sia una svolta molto a destra della Germania, nazionalista, e la stessa cosa può accadere in Francia. Di questo Biden si preoccupa essendo Germania e Francia i due partner più diretti. Dell’Italia sarà quel che sarà, visto che adesso c’è Draghi, e su di lui Biden può contare come un pilastro nella strategia filoeuropea.

Professor Teodori, e qui chiamo in causa anche la sua esperienza politica e parlamentare, quanto è il peso dell’ideologia che frena il cambiamento in Italia e in Europa? La metto giù un po’ brutalmente: Biden per certi aspetti è molto più “estremo” di quanto siano stati, in Italia, anche partiti come il Pci. Perché in Italia non è possibile una politica “radical”, verrebbe da dire “alla Biden”?
Perché la cultura di questo Paese, che ha permeato gran parte delle forze politiche, è una cultura ideologica, non è una cultura pragmatica. L’Occidente ha fatto delle rivoluzioni democratiche, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia etc., quando si sono affermate politiche pragmatiche che non si facevano ingabbiare, irretire, traviare da sparate ideologiche. E siccome di sparate ideologiche l’Italia è piena, la risposta è semplice. Quanto alla sinistra, o meglio la cultura comunista, essa è stata influenzata al tempo stesso dall’ombrello ideologico e dalla pratica pasticciona e conservatrice.

In ultimo, vorrei che tornassimo sui dossier geopolitici più caldi che attendono Biden. Lei ha citato, tra gli altri, quello mediorientale. E quando si parla di America e di Medio Oriente, il riferimento principale riguarda Israele. Il Primo ministro uscente d’Israele, Benjamin Netanyahu, era legato a doppio filo a Donald Trump. E Biden?
Finora di atti ufficiali verso Israele Biden non ne ha fatti. Ma noi sappiamo benissimo che la parte politica di Biden, i Democratici, e tutta l’opinione che l’ha sostenuta, cominciando dai grandi giornali molto filoebraici come il New York Times, hanno tutti quanti combattuto l’atteggiamento espansionista di Netanyahu, l’appropriazione dei Territori occupati. Biden è sempre stato per una politica di appeasement con i palestinesi, così come del resto ha fatto in passato Clinton. L’incontro di Camp David, che mise insieme Barack e Arafat (estate 2000, ndr) , fu fatto con Clinton alla Casa Bianca, come, durante il suo primo mandato, gli accordi di Oslo-Washington (settembre 1993, ndr) con la storica stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra Rabin e Arafat. Biden è su quella linea lì. Amico d’Israele, sì, ma con giudizio.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.