Lo Statuto dei lavoratori ha appena compiuto 50 anni, ma il mercato del lavoro non se la passa troppo bene. Le garanzie sono state progressivamente allentate, l’economia minaccia una recessione senza precedenti. Il Covid rischia di proiettare un’ombra tetra su quei diritti che Brodolini volle ostinatamente portare nelle fabbriche dopo una lunga battaglia cominciata da Di Vittorio al Congresso del Sindacato dei chimici nell’ottobre del 1952 e conclusa con feroce determinazione da Donat Cattin. «Fare 8 riforme del mercato del lavoro in 10 anni – sospira Marco Bentivogli – ha reso lo strumento legislativo più instabile e meno affidabile». «Bisogna ricomporre la rappresentanza del lavoro in fabbrica e attorno ad essa, questo è il lavoro più difficile da fare oggi», chiosa il segretario nazionale della Fim Cisl.

Sui giornali lo abbiamo celebrato, ma lo Statuto in questi anni è stato sostanzialmente rispettato nelle sue parti? Quando vi incontrate con le aziende ci sono riferimenti alle indicazioni dello Statuto oppure resta sempre sullo sfondo, dimenticato?
Sono riflessioni più generali, io posso solo raccontare la mia esperienza nella categoria dei metalmeccanici. Lo Statuto dei lavoratori 50 anni fa viene anticipato dalla contrattazione di settore, in particolare da elettromeccanici e successivamente dai metalmeccanici con il Contratto del 1969. Il vero motore politico sindacale di quegli anni furono gli anni 60 delle fabbriche culminati proprio nell’autunno caldo del ’69, che il Paese ha dimenticato di festeggiare lo scorso autunno. Ieri c’è stata una bellissima iniziativa della Cisl per il 50enario dello Statuto, molto utile non solo per ricordare la grande attualità della concezione sindacale della Cisl ma, e soprattutto, per la forza che rappresenta verso la sfida del nuovo lavoro e delle nuove tutele. Lo Statuto dei lavoratori nasce da lì. Dalla prima legge che oltre a una serie di nuovi diritti, promosse l’attività sindacale che era stata avversata per anni. Una legge che secondo la concezione della Cisl non doveva disconoscere la centralità della contrattazione come strumento dell’autonomia collettiva per portare in fabbrica la Costituzione, la nostra ispirazione solidaristica e la volontà di far vivere dal basso la partecipazione.

In altri termini?
Abbiamo sempre pensato (e non abbiamo smesso) che affidare alla legge la regolazione complessiva del lavoro ha molti limiti. Per quello Bruno Storti, allora segretario Cisl disse che “il nostro Statuto si chiama Contratto”: per contenere quella spinta. Ma poi, comprendendo l’importanza di disporre di una normativa quadro fece collaborare Pierre Carniti e Domenico Valcavi alla stesura. I veri padri dello Statuto furono Giacomo Brodolini e poi Gino Giugni e Federico Mancini. Donat-Cattin, ministro del Lavoro, fu abilissimo nel portare a casa il risultato. A loro si deve la nascita di una normativa quadro che per la prima volta non sancisce solo norme sulla dignità dei lavoratori ma una vera novità: la promozione delle libertà sindacali. Va ricordato che il Pci non votò lo Statuto ma si astenne e disse: «Il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato» insieme a Psiup e Msi.
Molti danno per scontate alcune conquiste che si devono alla straordinaria forza del sindacato negli anni 60. All’autunno caldo delle fabbriche del ’69. In quegli anni ad esempio Sesto San Giovanni aveva 40mila metalmeccanici divisi in 4 grandi imprese e 32mila iscritti alla Flm. Oggi a Sesto la taglia dimensionale media è di 16 dipendenti. Non è altrettanto facile l’azione sindacale in un lavoro così frammentato. Servono nuovi strumenti e modelli perché non possiamo accontentarci che le norme si applichino solo alla grande fabbrica e ai contratti a tempo indeterminato. Oggi il 90% dei metalmeccanici lavora in aziende sotto i 20 dipendenti.

Però due volte si è tentato di abolire o modificare l’articolo 18, e tutto questo ci richiama alla questione centrale: lo Statuto è ancora valido? Oppure come dicono in molti deve essere aggiornato dato che il lavoro è profondamente mutato, magari tenendo fermi alcuni articoli come il 3 e 4 (sul controllo del lavoratore), o il 14 e il 16 sui diritti sindacali e sul salario?
Sono contrario a gettare lo Statuto dei lavoratori alle ortiche. Non posso non pormi il problema che su 100 avviati al lavoro ogni anno, 85 non sono sprovvisti dell’articolo 18 ma di tutte le tutele previste dalla legge 300 del 1970. Bisogna ricomporre la rappresentanza del lavoro in fabbrica e attorno ad essa, questo è il lavoro più difficile da fare oggi. È impensabile pensare di inscatolare il nuovo lavoro industriale dentro i vecchi contenitori normativi. Non solo, fare otto riforme del mercato del lavoro in dieci anni ha reso lo strumento legislativo più instabile e meno affidabile. La contrattazione ha garantito maggiore stabilità. Sul controllo del lavoratore la tecnologia corre velocemente e le norme vengono aggirate. Non occorre solo ripensarle ma pensare a nuovi strumenti normativi. L’articolo 18 è stato una conquista di civiltà. Il suo impianto sanzionatorio è stato ridimensionato. Nel contratto dei metalmeccanici vi è dal 2016 il diritto soggettivo alla formazione. Sono d’accordo con chi si batte perché diventi un diritto umano. Senza sapere non non c’è libertà, ma non solo. Il sapere è l’arma più forte per tutelare e promuovere l’occupazione oggi. In Italia non si fanno bilanci delle competenze, lo chiediamo come diritto nel nuovo Contratto dei metalmeccanici insieme alla necessità che imprese e territori aggiornino sempre il loro “skill monitor”. Sapere quante e quali competenze si hanno in azienda o in un territorio è il vantaggio competitivo più importante.

L’Italia piange oltre 30mila morti a causa del Covid. Ma dopo la lunga paralisi sembra finito in pezzi anche il mondo produttivo. Che cosa insegna alle imprese questa tragedia?
Intanto la tragedia ha suonato la sveglia a chi non ha capito che il lavoro è cambiato e servono categorie analitiche completamente nuove per disegnare il nuovo lavoro. In primo luogo mi chiedo. Molte aziende vogliono tornare indietro rispetto allo smart working? Sarebbe un errore fatale. Il lavoro agile va contrattualizzato, per questo abbiamo varato delle linee guide come Fim Cisl per la contrattazione aziendale. È una grande occasione. Secondo. In Italia, giuridicamente riconosciamo il lavoro in un’autostrada a due corsie: lavoro autonomo e lavoro dipendente (subordinato). Molto spesso il nuovo lavoro, anche industriale, non è autonomo ma neanche dipendente. E servono contratti ibridi perché altrimenti lasceremo o senza diritti o con tutele solo teoriche, centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze. Terzo punto. La partecipazione dei lavoratori alla gestione strategica dell’impresa rende più forti e competitive le imprese. Abbiamo ottenuto 2 posti per i rappresentanti dei lavoratori nel futuro colosso europeo dell’auto Fca-Psa. Ma la svolta è partita in aziende molto più piccole come ad esempio Manfrotto.

Chiudiamo da dove siamo partiti. Lo Statuto non dovrebbe spingervi più celermente verso l’unità sindacale?
Lo Statuto come qualsiasi legge non aiuta processi che sono culturali. Negli anni 70 si arrivò all’unità: penso a noi, alla Flm, ma fu un percorso che partì dal ’69, l’autunno caldo, periodo in cui ci fu un fortissimo rinnovamento del sindacato. L’unità è una strategia importante. Non si fa sui giornali e anzi spesso la si disfa proprio sui media. Serve una maggiore laicità per capire che le proposte vanno discusse in modo diffuso e non lanciate a spot. Non solo, a spingerci all’unità c’è la nostra concezione di autonomia. Ancora non è patrimonio di tutto il mondo sindacale. Tra i metalmeccanici ci sono ancora molte divisioni che hanno portato ad accordi separati. Non bisogna fare solo contratti unitari, bisogna confrontarsi di più e cercare insieme approdi nuovi. Si considera ancora un reato, quando accade, dire che si è d’accordo con un’azienda, anche su un singolo punto. Mentre le convergenze con i Governi si mostrano con maggiore disinvoltura. Si è accettato che il più nobile stile sindacale fosse plasmato dalle necessità televisive di polarizzazione, proprio in un momento in cui lo stile sindacale può insegnare molto alla politica. E infine, il lavoro va deideologizzato. Ricorrere alle ideologie può essere confortevole ma oggi bisogna guardare avanti con maggiore coraggio, concretezza e spirito di frontiera. Le stagioni sindacali sono singolari, inimitabili e irripetibili. Il movimento operaio di allora riuscì a portare nei luoghi di lavoro e nelle aspirazioni un grande senso di speranza e di fiducia nel domani che mobilitò tanto impegno collettivo. Forse, proprio quello che servirebbe in un Paese che ha bisogno di ripartire migliore.