Non era mafia, “non esistevano metodi da criminalità organizzata”. Non c’era la leva della paura e a dirla tutta perfino la corruzione era poca cosa. Episodi circoscritti. Il quadro delineato dal dispositivo che derubrica i reati di Salvatore Buzzi lo restituisce ridimensionato, rispetto al fantomatico mostro di cui si è parlato. Intanto a Roma c’è stato un terremoto, sono venuti giù palazzi interi. Spazzata via una classe dirigente, è stata suonata la fanfara che ha accompagnato in Campidoglio la “banda degli onesti” a Cinque Stelle. Buzzi intanto si è fatto cinque anni e sette mesi, cinque dei quali di carcere duro. Istituto di massima sicurezza a Tolmezzo, incastonato tra le Alpi Carniche. «Un confinamento dove mia moglie e mia figlia di dieci anni non potevano neanche raggiungermi».

Con Buzzi c’era qualche siciliano che nella mafia c’è stato, eccome. «Ma con quelli non si parlava mai. Quelli parlano pochissimo». Lui invece è sempre stato loquace e oggi che può parlare, parla a ruota libera. Chiamando in causa più di qualcuno. Il Riformista lo ha raggiunto per la sua prima intervista a piede libero: esce dal regime detentivo dopo che il tribunale del Riesame ha rigettato il ricorso presentato dalla Procura generale della Corte d’appello di Roma contro la sua scarcerazione. «Appena ho saputo di poter uscire dai domiciliari, sono andato con mia figlia a mangiare un gelato», ci racconta. «Voglio farle capire che suo padre può camminare per le strade di Roma a testa alta, perché non ha mai fatto male a nessuno».

Il reato di corruzione però è accertato.
Abbiamo concentrato tutte le energie difensive sull’accusa di mafia, e non ho un apparato di difesa come può permetterselo Berlusconi. I capi di accusa sulle corruzioni li abbiamo un po’ tralasciati, perché c’è il primum vivere, deinde philosophari. La priorità era scongiurare l’infamante accusa di aver costruito un metodo mafioso a Roma. Ma io mi considero responsabile solo di tre corruzioni. Tre, non di più.

E tutto il resto?
Se io pago un facilitatore per aiutarmi ad avere i pagamenti cui ho diritto da parte del Ministero degli Interni che non mi paga, e questo facilitatore è del tutto esterno all’amministrazione, come mi si fa a condannare per corruzione? Luca Odevaine non era interno all’amministrazione, ma aveva rapporti con dirigenti del Viminale, dove io non riuscivo a entrare. Io a lui chiedevo solo di aiutarmi a essere pagato, perché le fatture il Ministero le pagava con troppo ritardo. In un Paese normale funziona così? No di certo. Non è giusto raccomandarsi l’anima al diavolo per ottenere il saldo di una fattura, sono io il primo a dirlo. Ma la pubblica amministrazione non ci sente, chiunque fa il fornitore nell’ambito del pubblico lo sa bene. Io avevo crediti legittimi per milioni di euro che non sono stati mai contestati. La mia corruzione è stata quella di aver pagato un professionista terzo per sollecitare questi pagamenti. Qualcuno pensa che mi sia divertito a farlo? Ma perché, io non lo vorrei un mondo normale, in cui si lavora e si viene pagati il giusto?

Entriamo nel merito. Le carte parlano di corruzione diffusa.
A Roma, come in tutta Italia, c’è corruzione. Mance, mazzette, richieste di favori o di assunzioni. Va così dal Regno d’Italia a oggi. La settimana scorsa hanno arrestato tre persone all’ufficio del catasto. Parnasi è coinvolto con importi molto superiori ai miei. Lo scandalo del palazzo Atac è di questi giorni. Di cosa stiamo parlando, allora? Io ho corruzioni per 65.000 euro, a fronte di un fatturato di 180 milioni di euro. Uno zerovirgola. Mi considero uno bravo.

Percentualmente poco, ma sempre corruzione rimane.
Non è commendevole pagare tangenti, certo. La mia cooperativa era sana, ma quando ti trovi in quel contesto poi sbagli. Anche io mi chiedo perché ho pagato quelle tre tangenti.

E che cosa si risponde?
Che non bisogna pagare nessuno né per lavorare né per farsi pagare il lavoro, in un mondo ideale. Ma da noi non funziona. Il paradosso è questo: io dovevo avere dei pagamenti dal Ministero dell’Interno e dalla Protezione Civile. Ho dovuto pagare un tramite perché rendesse fluidi i pagamenti che mi spettavano per legge.

La condotta mafiosa dove stava?
Quello che ho detto ai magistrati sin dal primo momento. Loro insistevano: voi cooperative di destra avete fatto un patto mafioso. Io li guardavo con gli occhi di fuori. Ragioniamo, dicevo loro: la mafia esige il pizzo e mette paura. Io avevo diritto a pagamenti per il lavoro della cooperativa, oltretutto un lavoro di reinserimento sociale, e neanche mi saldavano il dovuto. E se dovevo chiedere l’intervento di un mediatore era proprio perché non mettevo paura a nessuno. In banca mi ridevano in faccia: le fatture del Ministero erano praticamente crediti inesigibili. Ma io i lavoratori miei li dovevo pagare: tutti contrattualizzati e con famiglie a carico. Nella mia cooperativa c’è la regola per cui il presidente non può guadagnare più di quattro volte quello che guadagna l’ultimo dei dipendenti. E io l’ho sempre rispettata.

Non era lei a offrire le tangenti?
Io non ho mai corrotto di mia iniziativa, ma dove ti giri ti giri, trovi sempre chi ti chiede soldi. Un po’ tutti. Qualcuno quasi estorcendomeli. Ero un pezzo di un sistema che funzionava così. Chi non chiedeva soldi, mi chiedeva di assumere persone. I figli. Le amanti. In questi giorni ho seguito la vicenda di Palamara e mi sono detto: ecco, io sono come Palamara. Prima tutti a chiedergli favori, poi appena si scopre che era intercettato, tutti spariscono.

Il Csm quindi funzionava come Mondo di mezzo?
Ci sono dinamiche di do ut des che conosco bene. Il Csm funziona come funzionava Mafia Capitale per gli accordi collusivi tra le correnti della magistratura mentre io agivo con le cordate economiche per partecipare alle gare.

Si spieghi meglio.
Io sono stato condannato dieci volte, non una, per turbativa d’asta in cui mi si incolpa di accordi collusivi con le altre imprese, cioè “io vado da una parte e tu da un’altra”. Salvo poi scoprire che al Consiglio superiore della magistratura, dei quattro posti da pm, invece che mettere a correre chi vuole in liste di corrente, se ne indicano uno per ciascuna corrente in modo da spartirsi i posti uno per corrente. Lo ha rivendicato Davigo intervistato da Bianconi quando gli ha detto: “Se avessi saputo di prendere tutto questo consenso, non avrei chiuso quell’accordo”. Un accordo collusivo per eleggere un organo costituzionale ed è tutto tranquillo. Lo faccio io e mi danno dieci turbative d’asta. È l’equilibrio di Nash: tutti concorriamo ad avere un vantaggio, a scapito di avere un vantaggio singolo superiore. Si applica in economia, ed è quello che ha fatto Piercamillo Davigo con Giuseppe Cascini.

Cos’era la sua cooperativa al momento del suo arresto?
La “29 Giugno” era la più solida cooperativa sociale del Lazio. Trenta milioni di patrimonio, 1250 dipendenti. 500 soci. I soci avevano sedici mensilità, e ogni mese prendevano i loro soldi. Questa realtà gli amministratori giudiziari la hanno spolpata.

Spolpata?
Sto leggendo ora la relazione: gli amministratori si sono liquidati parcelle da un milione di euro l’una. Hanno assunto svariati collaboratori, si sono fatti autorizzare dal giudice l’assunzione di familiari. E una cooperativa solida è fallita. I dipendenti sono stati precarizzati. Io sono passato per boss mafioso, e loro per fenomeni.

Un milione di euro l’uno?
Ha capito bene. Più Iva. Per tre anni di lavoro. E non per averla rimessa in piedi, al contrario: per averla fatta fallire. Erano tre, quindi tre milioni. Settantamila euro agli otto collaboratori che si sono portati dietro, più svariate centinaia di migliaia di euro per tutte le assunzioni, tra cui alcuni famigliari degli amministratori. Io l’azienda l’avevo lasciata sana, adesso non c’è più. E il danno non lo subisco solo io ma tutti quelli che ci lavoravano.

Vi hanno descritto come una banda malavitosa.
Loro partono con l’operazione mediatico-giudiziaria che prende alla lettera quello che scrivono Bonini e De Cataldo nel libro Suburra. Il libro Suburra esce nel 2013. Io nel mio libro riporto dieci similitudini tra l’inchiesta che mi ha colpito e la narrazione del libro. Dieci punti identici. Per fare sei al superenalotto ci vuole parecchia fortuna, no? Ecco, loro pretenderebbero di aver fatto dieci con l’inchiesta cosiddetta di Mafia Capitale, che poi è stata smontata. E il Ros dei Carabinieri ha estrapolato alcune conversazioni private, le ha stravolte fuori dal contesto e le ha proiettate nell’immaginario collettivo come fossero frasi da film.

Quali intercettazioni contesta?
“La mucca deve mangiare per poter essere munta”; parlavo della Cooperativa, che deve lavorare se deve dare lavoro; loro hanno detto che la mucca era il Comune. Sbagliando. Ma non accettavano la mia immediata spiegazione, no. Erano convinti di dover dare una interpretazione univoca alle parole. “Gli immigrati rendono più della droga” era una iperbole detta per rispondere a una provocazione della mia segretaria, con quel tono ironico con cui si parla a Roma. Ma le intercettazioni ambientali decontestualizzano sempre, e non rispettano sarcasmo, ironia e qualche eccesso colloquiale. D’altronde non ho avuto alcun reato collegato all’immigrazione, e per l’assistenza ai migranti prendevo quello che prendeva la Caritas.

Le sembra che gli inquirenti stessero seguendo un copione?
Esattamente. Quando i carabinieri vanno a perquisire l’abitazione di Gianni Tinozzi, mio amico che era colpevole soltanto di essere direttore del ristorante dove io andavo ogni tanto a mangiare, lui trasecola e chiede spiegazioni. Si sente rispondere dal Carabiniere: “Domani legga Repubblica e ci trova tutto”. Come mai i Carabinieri alle 7 del mattino suggeriscono di comprare Repubblica per sapere i dettagli che loro stessi ancora non hanno in mano? E come mai Bonini “indovina” dieci personaggi su dieci che pochi anni dopo vengono indagati? Vedo troppe ombre nell’osmosi tra pm e giornalisti.

Quali?
Tante. Non si capiscono i ruoli. Un esempio? Ancora aspetto che Luciano Fontana o lo stesso Giovanni Bianconi smentiscano l’affermazione di Palamara per cui Bianconi era dei servizi. Smentiscano o confermino. Che tutto passi in cavalleria, questo è inaccettabile. Non è proibito collaborare con i servizi, ma ce lo dicano.

Una trama a beneficio di chi?
Loro arrestano Carminati, che era l’incarnazione del Male. Riccardo Mancini, che era il braccio destro di Alemanno e Franco Panzironi che ne era il braccio sinistro. Alemanno viene indagato per 416 bis e la cooperativa 29 Giugno, definita “cooperativa di destra”, messa in amministrazione giudiziaria. Non avevano neanche capito che noi eravamo di sinistra. Passano dei mesi e arrestano Gramazio. E poi arrestano qualcuno della corrente di Bersani, nel Pd di Roma. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Arrestano Daniele Ozzimo per un contributo elettorale richiesto e dato, e Pierpaolo Pedetti non ho mai capito perché l’hanno arrestato. Tutti gli altri, niente. E dire che tutti gli altri, che pure erano nelle intercettazioni, che mi chiedevano soldi e contributi, tutti archiviati. Solo qualche arresto in una certa corrente di destra e in una precisa corrente di sinistra. Quasi col bilancino. La mia operazione era funzionale a colpire due famiglie politiche equidistanti, io posso solo dare questo dato. Poi ciascuno tragga le sue valutazioni.

Proprio in questi giorni anche a Parma va in soffitta l’inchiesta che ha portato l’ex sindaco alle dimissioni e assicurato la vittoria ai Cinque Stelle. Ora la Procura ha ammesso gli errori investigativi.
Certo, e a Roma è stata la stessa cosa. Hanno spianato la strada ai Cinque Stelle. Una come Virginia Raggi senza di me quando mai sarebbe diventata sindaco? Senza di me e senza Matteo Orfini.

Che c’entra Orfini?
Orfini è quello che ha detto “ringraziamo Pignatone che ci ha liberati dalla mafia”. Questo da una persona che mi conosce non lo posso accettare. Io sono stato iscritto al Pci dal 1976, poi militante nel Pds-Ds. Sempre stato dalemiano, come una volta era Orfini. Ma quando Pignatone dice che la mia era una cooperativa mafiosa e di destra, dopo aver invece lavorato per anni con tutti i sindaci di centrosinistra degli ultimi vent’anni, mi aspettavo che qualcuno alzasse un dito. O il telefono. Invece niente, all’improvviso mi hanno fatto il vuoto intorno tutti.

Come nasce il sodalizio con Carminati?
Feci la prima manutenzione dell’Eur nel 2000, vinsi la prima gara da solo. Nel 2008 vince Alemanno, ma inizialmente con l’ad di Ente Eur, Riccardo Mancini, andava tutto bene. Usava il motto di Deng Xiao Ping: non mi interessa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. E noi lavoravamo sodo, problemi di mancata manutenzione non ce n’erano mai. Quando nel 2009 rifacciamo la gara, la faccio da solo. Ma nel 2012 va a rinnovo e Mancini mi parla di Carminati, che è un ex detenuto come tanti con cui già lavoravo. E io perché mi devo fare problemi? Gli ho detto sì. E quando me lo presentano, guardo i suoi precedenti penali. Tre rapine a mano armata e un furto. Il resto è operazione mediatica. Io in cooperativa avevo già avuto Concutelli, killer del giudice Vittorio Occorsio. Era un uomo di estrema destra, certo, ma che aveva pagato i conti con la giustizia. Due volte è stato assolto per l’omicidio Pecorelli. Nel mio libro pubblico le sentenze di condanna di Carminati, per mettere le cose in chiaro.

Buzzi rimane un uomo di sinistra?
Credo nel valore della redistribuzione sociale, e applico la differenza tra imprenditore e dipendente nel massimo di 1 a 4. Ho sempre combattuto contro le discriminazioni e per il reinserimento sociale dei detenuti. Pignatone può sbagliare, ma chi a sinistra mi ha voltato le spalle è imperdonabile. Io oggi voterei per Silvio (Berlusconi, ndr). O per i radicali. Ma mi sembra che i radicali non si presentano più, quindi mi astengo.

Come le appare il mondo, adesso che si riaffaccia da uomo libero?
C’è una osmosi tra giornali e magistrati che non ha uguali nel mondo. Il caso dell’audio su Berlusconi che avete pubblicato è eloquente. Le sentenze escono con novanta pagine di motivazione, come fossero state scritte a monte, ben prima della camera di consiglio. Antonio Esposito fa l’editorialista del Fatto e nessuno si scandalizza. Ditemi un altro Paese nel mondo in cui questo può avvenire. Di tutto questo parlo nel libro Se questa è mafia, curato da Stefano Liburdi e uscito con un editore piccolo ma coraggioso, le edizioni Mincione. Un libro che però non riesco a presentare: nessuno vuole darmi una sala. Sono diventato scomodo per tutti.

Si sente un personaggio da romanzo, suo malgrado?
Mi sento vittima di un complotto mediatico-giudiziario nel quale Bonini ha fatto i soldi e io ho fatto la galera.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.