Esteri
Iran, è l’ora della questione di legittimità

Il 9 febbraio 1979, Khomeini rientra a Teheran su un aereo della Air France. Dopo la cacciata dello scià Reza Phalavi, in Francia, settori rilevanti della intellighenzia – Sartre, Foucault e altri – alzano un osanna sulla “rivoluzione komeinista”. Garaudy (prima comunista, poi cattolico e infine convertito all’Islam) se ne andò a vivere presso gli ayatollah; Liberation vi spedì un inviato permanente, dal 1973-2006; articoli entusiasti di Foucault apparvero sul Corriere della Sera, dove scriveva: “L’insurrezione di uomini a mani nude che vogliono sollevare l’enorme peso che pesa su ognuno di noi”.
Ma altri intellettuali presero la parola contro. Tra questi il sociologo recentemente scomparso Ferrarotti: “Sono state condotte molte analisi affrettate e sbagliate sulla ‘rivoluzione’ iraniana, in Italia e altrove Foucault, e con lui Romano Ledda fra gli altri, hanno avuto forse una fretta eccessiva quando hanno salutato la grande ‘rivoluzione iraniana’ come una specie di ‘rivoluzione francese’ del 1979. Hanno preso un grosso abbaglio, proiettando i loro valori e strumenti analitici su un paese e su una cultura radicalmente diversi che conoscevano poco. In Francia, che è culturalmente un paese serio, oggi Foucault ha perso molto del suo prestigio. Può darsi che la prima pagina del Corriere della Sera gli abbia portato sfortuna. Il potere di Khomeini sta a dimostrare che la spinta del sacro, usata con criteri moralistici e autoritari, porta necessariamente al dogmatismo assolutistico”.
Osserva Marco Cicala: “Certo, i reportage del 1978, nei quali ‘San Michel’ benediceva le rivolte contro il regime dello scià come espressione di un sovversivo ritorno in politica della «spiritualità, quella cosa che» noi occidentali «abbiamo dimenticato nel modo più assoluto»), rimangono una cantonata memorabile”. E non soltanto in Francia; anche in Italia, come dimostra un’ottima ricerca storica del docente dell’Università degli Studi di Bari, Rosario Milano, “L’Italia e l’Iran di Khomeini 1979-1989”. Luciano Monzali, recensendola precisa: “ Comunisti italiani come Pietro Ingrao, che si reca a Teheran nel giugno 1980 per prendere contatti con i leader rivoluzionari iraniani: interpretano gli eventi in Persia in maniera ideologica, privi di una conoscenza precisa e approfondita della società e della politica iraniane; e, affascinati dai temi antioccidentali e anti-americani della propaganda dei pasdaran, fanno fatica a percepire il carattere fortemente religioso islamico e anticomunista del movimento guidato da Khomeini”.
L’Iran a che punto è? Le valutazioni che in questi giorni vengono fatte dall’occidente per la Siria, chiudendo il cinquantennio sanguinario degli Assad, padre e figlio, devono valere anche per l’Iran. A non comprenderlo forse è soltanto la burocrazia, mentre lo afferma con la lotta e il sacrificio della vita la generazione di Donna, Vita e Libertà e “tutta l’opposizione in esilio, a cominciare dai due Premi Nobel Shirin Ebani e Narges Mohammadi, che ci chiedono a gran voce di scommettere sul cambio di regime e non sul mantenimento dello status quo in Iran”, (Gianni Vernetti, Linkiesta 10 gennaio 2025).
Per la cosiddetta “repubblica islamica” è da tempo evidente una grande questione di legittimità. Il fallimento dell’autocrazia degli ayatollah si evince non in forza di politologie estranee alla cultura persiana e islamica. Il concetto di popolo, ad esempio, ha una sua forza costitutiva interna ai fondamenti del pensiero filosofico e politico in Iran, ben prima della torsione dottrinale allo sciismo operata da Khomeini.
Scriveva, infatti, Alī Sharī’atī (1933-1977): “La parola «popolo/al-nās» ha nell’Islam un significato profondo e distintivo. Il Corano comincia nel nome di Dio e finisce nel nome del popolo. La Ka‘ba è la casa di Dio, ma il Corano la chiama anche la «casa del popolo» [Q, XXII, 29 e 33]”. Queste modeste riflessioni sono dedicate a Pakhshan Azizi, politica curda, condannata a morte dalla Corte Suprema dell’Iran.
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