Né durante la preparazione, né all’inizio, né poi nel corso delle operazioni militari a Gaza i tanti che chiedevano a Israele di fermarsi hanno mai adoperato l’argomento serio, per quanto a sua volta discutibile, che almeno in teoria avrebbe potuto costringere in una stretta zona di responsabilità le scelte di quel paese: e cioè che il popolo sventrato dal pogrom del 7 ottobre aveva il diritto, con il proprio Stato, di fare la guerra a quei macellai, la guerra per punirli e per neutralizzarne le capacità e le ambizioni sterminatrici, ma che quel diritto non poteva essere esercitato perché gli autori e i mandanti del Sabato Nero avrebbero usato due milioni di persone come sacchi di sabbia.

Questo richiamo avrebbe forse presentato un profilo di insensatezza e una pecca di effettività: perché difficilmente Israele avrebbe potuto accettare che il suo diritto di difendersi si risolvesse in una proclamazione revocata dall’obbligo di rimanere inerte. Ma un appello articolato su quel presupposto avrebbe conferito dignità a una richiesta di cautela che invece – praticamente dal pomeriggio di quel sabato, e cioè quando ancora fumavano i corpi degli israeliani bruciati, quando ancora sulla sabbia del deserto del Negev era fresco il sangue delle ragazze stuprate – ha preferito sfogarsi nell’addebito genocidiario e nell’accusa di terrorismo rivolta alla forza occupante che dopotutto aveva subìto un atto di comprensibile “resistenza”.

Sarebbe stato molto diverso, e molto diverso sarebbe oggi, durante il dilungamento delle operazioni militari verso Rafah, reclamare il cessate il fuoco sulla base di quel riconoscimento invece denegato: vale a dire che le belve di Hamas non si limitano a sterminare gli ebrei, come hanno esemplarmente fatto sette mesi fa e come rivendicano di voler fare ancora, dal fiume al mare, ma sono disposti a sacrificare i civili, le proprie famiglie, le proprie donne, i propri figli, tutti posti a protezione dei tunnel e degli arsenali di armi nascosti in ogni ospedale, in ogni scuola, in ogni moschea, in ogni chiesa di quella striscia ridotta all’enorme bunker di cui lamentare la distruzione in faccia al mondo inorridito. Se possibile, ora il discorso sarebbe anche più urgente.

Non solo perché discutiamo di una situazione che registra ormai un numero di morti tra i civili indiscutibilmente altissimo, ma inoltre perché le politiche sacrificali che i militanti e i mandanti degli eccidi del 7 ottobre praticano contro la propria popolazione si sono squadernate in una plateale sequela di riprove. Ma ancora una volta, anziché far leva su quel più serio argomento, i formali difensori della causa palestinese e sostanziali nemici del diritto di esistere di Israele preferiscono evocare un’immagine diversa, la scena di un esercito sadicamente comandato a perpetrare un’altra fase del genocidio contro una popolazione stremata da violenze deliberatamente rivolte ad annichilirla.

L’oscena mistificazione cui abbiamo assistito l’altra sera e ancora ieri, con un accordo per la tregua che non si chiude perché Israele crudelmente lo sdegna mentre Hamas lo mette su un piatto di ragionevole equanimità pacifista, appartiene alla medesima impostazione distorta e profondamente disonesta. Che non difende la popolazione ammassata a Rafah ma il gioco cinico e ricattatorio degli stragisti che ne fanno ancora lo stesso uso spregiudicato, non senza il capolavoro consistente nell’offerta di condizioni di rilascio degli ostaggi compilate con i nomi di quelli già uccisi. Perché, nonostante fosse chiaro un andamento ben diverso delle cose, la notizia – su molti giornali di ieri – continuava a essere quella: la tregua, magari persino la pace, era a portata di mano, già “firmata” da Hamas ma imperdonabilmente messa nel nulla da Israele che se ne impipava e cominciava a bombardare Rafah.

Le schiere pacifiste dall’8 ottobre in poi (il 7 dipendeva dal contesto) non hanno mai ispirato le proprie pretese al criterio accettabile sopra descritto, che potrebbe giustificare con ragionevolezza l’avversione alle iniziative militari israeliane per una ragione diversa: e cioè non perché Israele non deve uccidere i civili, ma perché non deve permettere che Hamas li faccia uccidere. Non sono parole e non è un gioco di parole. È la differenza che corre tra il difendere il diritto di Israele di difendersi imputandogli il dovere di salvare i palestinesi da chi ne vuole il sangue, da un lato, e il negare quel diritto di difesa usando per procura gli argomenti della “resistenza” fatta sul corpo di quei civili, dall’altro lato.