È superfluo sottolineare la gravità dell’emergenza sanitaria causata dalla rapida diffusione a livello mondiale dell’epidemia di Covid-19. Le drastiche misure adottate per contenerne la propagazione, che hanno comportato la limitazione degli spostamenti e delle interazioni sociali e la chiusura temporanea di molte attività produttive, hanno colpito profondamente l’economia italiana. Alla metà del 2020 il pil era tornato al livello registrato all’inizio del 1993; in termini pro capite, era sceso ai valori di fine anni Ottanta. Questo enorme salto all’indietro riflette, come è ovvio, l’eccezionale portata del crollo dell’economia dovuto alla pandemia: nel secondo trimestre il pil è diminuito di circa il 13%. In soli tre mesi, dunque, la perdita è stata maggiore di quella registrata nell’intero periodo 2008-2013, che comprende la doppia recessione connessa con la crisi finanziaria globale e quella dei debiti sovrani dell’area dell’euro, ovvero la più grave contrazione economica in tempo di pace dall’Unità d’Italia nel 1861.

Ma la specificità italiana risiede soprattutto nell’estrema debolezza della crescita della nostra economia per ben oltre due decenni. Nel secondo trimestre del 2020 altri Paesi avanzati hanno subito diminuzioni analoghe o addirittura peggiori del pil, ma nessuno ha registrato un arretramento simile al nostro poiché in questi Paesi la crescita era stata ben più robusta in passato: nella sua caduta il pil si è fermato al livello osservato nel 2014 negli Stati Uniti, nel 2010 in Germania, nel 2002 in Francia e in Spagna. Affrontare le difficoltà create in tutto il mondo dalla pandemia è la questione più urgente. Non sorprende che la risposta di governi, banche centrali e autorità di vigilanza sia stata, nella maggior parte dei Paesi, immediata e straordinaria. Forti aumenti di spesa pubblica e riduzioni di imposte sono stati decisi in pressoché tutte le economie, mentre le banche centrali hanno utilizzato un’ampia gamma di strumenti per sostenere i prestiti alle famiglie e alle imprese, evitare una stretta creditizia, contrastare le tensioni sui mercati finanziari.

Nell’area dell’euro, il Consiglio direttivo della Bce ha reso le condizioni monetarie più accomodanti. Gli interventi nei mercati dei titoli pubblici e privati sono stati rafforzati con l’introduzione del nuovo programma di acquisti per l’emergenza pandemica, con una dotazione di 1.350 miliardi di euro; l’elevata flessibilità di tali acquisti, da effettuare almeno fino alla metà del prossimo anno, è stata fondamentale per contrastare tensioni e movimenti divergenti nei mercati finanziari nazionali durante la fase più acuta della crisi. Nuove misure volte a erogare liquidità al sistema bancario a condizioni particolarmente favorevoli hanno mirato a sostenere il credito; anche in Italia, con le garanzie sui prestiti e le moratorie concesse dal governo e i provvedimenti adottati dalle autorità di vigilanza, esse hanno permesso agli intermediari di soddisfare la domanda di liquidità di famiglie e imprese.

Andranno ancora contrastati gli effetti che l’aumento dell’incertezza dovuto all’epidemia continuerà a produrre sulla spesa delle famiglie, contenuta dal maggiore risparmio precauzionale, e sulle decisioni di investimento delle imprese. Le misure di politica monetaria adottate dallo scorso marzo sono state fondamentali nell’evitare l’avvitamento dell’economia e scongiurare i rischi di deflazione; stimiamo che, grazie a esse, la probabilità di variazioni negative dei prezzi nei prossimi cinque anni nell’area dell’euro, pari a oltre il 40% nell’ultima settimana di marzo, è oggi attorno al 15%. Se i rischi di deflazione sono in buona parte rientrati, le condizioni monetarie non potranno che restare accomodanti per lungo tempo. E non dovrà mancare in tutti i Paesi il sostegno delle politiche di bilancio, specie ai settori più colpiti, nella produzione e nell’occupazione, dal calo dei consumi.

All’Italia, tuttavia, si richiede oggi, con forza se possibile ancora maggiore che nel passato recente, di affrontare i problemi che da oltre vent’anni frenano lo sviluppo dell’economia. Non possiamo che ribadire quanto sia essenziale attuare riforme volte a creare un ambiente più favorevole alle imprese, migliorando la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, accrescendo gli investimenti in infrastrutture, riducendo i tempi della giustizia civile, diminuendo gli oneri amministrativi e burocratici che ostacolano gli investimenti privati, abbattendo il peso dell’evasione fiscale, della corruzione e delle altre attività criminali. L’importanza di riforme che producano risultati importanti nelle direzioni indicate è evidente. Per un Paese avanzato come l’Italia, tuttavia, pur se assolutamente necessarie, potrebbero non essere sufficienti a determinare uno sviluppo duraturo ed equilibrato.

Quando un Paese si avvicina alla frontiera tecnologica, la crescita dipende soprattutto dalla sua capacità di integrare e promuovere l’innovazione. Questo richiede una spesa adeguata in ricerca e sviluppo e investimenti in istruzione, dalla scuola primaria fino all’università. I ritardi accumulati in questi campi, unitamente alle complesse interrelazioni con la struttura del sistema produttivo, sono all’origine della nostra debole crescita economica. Le risorse che l’Unione europea mette oggi a disposizione, anche con la storica decisione di dotarsi di una capacità sostanziale di indebitamento comune, vanno utilizzate al meglio per trasformare il contesto economico e sociale, accelerando – come vi è ormai generale consapevolezza – la transizione digitale e quella ambientale. Se le risorse saranno ben utilizzate, se ne vedranno frutti anche nelle condizioni di accesso al mercato, con benefici permanenti sul costo del debito pubblico.

Un programma credibile di riduzione del debito non può che discendere dal graduale ritorno a un sostanziale equilibrio dei conti pubblici. Questo richiede un deciso miglioramento del potenziale di crescita da cui anche dipende il definitivo rientro da differenziali di interesse troppo elevati. Investimenti privati volti ad accrescere la produttività delle imprese potranno essere favoriti dall’allocazione di risorse pubbliche in settori ad alto contenuto innovativo, come il completamento della copertura del territorio con rete fissa a banda larga ultraveloce che oggi raggiunge ancora solo una famiglia su quattro (tre su cinque in Europa), con una particolare penalizzazione per il Meridione. Il ritardo nel campo delle tecnologie digitali è simile a quello registrato negli anni Novanta per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ora come allora, le nostre imprese non sembrano in grado di trarre vantaggio dalle nuove tecnologie digitali, che richiedono competenze adeguate e provate capacità gestionali. Di conseguenza, non solo la produzione di beni e servizi digitali è bassa, ma anche il loro utilizzo da parte delle imprese e delle famiglie è modesto.

Il basso livello di spesa in ricerca e sviluppo è da noi un problema cronico; riguarda sia il settore pubblico sia quello privato. Nel 2018 la spesa in ricerca e sviluppo si è attestata solo all’1,4% del pil, contro il 2,4% della media dei Paesi Ocse, meno della metà del livello registrato in economie avanzate come Stati Uniti e Germania. Nel 2000, in Cina, l’incidenza di ricerca e sviluppo sul pil era prossima all’1% dell’Italia; oggi, salita al 2,2%, supera di quasi un punto percentuale quella italiana, nonostante la straordinaria crescita dell’economia cinese, o forse anche a sua testimonianza. Pur con questi limiti, la qualità della ricerca italiana è comparabile a quella dei più importanti Paesi europei. Un deciso ampliamento quantitativo, se ben distribuito, avrebbe quindi una buona base da cui partire e su cui sostenersi.

Ma insufficienti sono anche, e non solo sul piano quantitativo, gli investimenti nell’istruzione. Solo il 28% dei giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha un titolo di studio di livello terziario; siamo al penultimo posto fra i paesi Ocse, la cui media è ben oltre il 44%, con valori superiori al 60% in Canada, Giappone e Corea del Sud. L’Italia è anche uno dei Paesi in cui più alta è la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione (oltre due milioni: il 22% della popolazione in questa fascia di età, il 33% nel Mezzogiorno). Questo straordinario ritardo nell’accumulazione di capitale umano è un vero e proprio spreco di potenzialità a livello economico, con conseguenze spesso drammatiche sul piano sociale; non può essere lasciato senza risposta.

Dal deciso contrasto di un fenomeno così negativo possono derivare fondamentali opportunità per far fronte a sviluppi demografici certo non favorevoli. Per i prossimi quindici anni l’Eurostat stima una riduzione della popolazione di età compresa tra 15 e 64 anni pari a oltre tre milioni (nonostante un apporto dell’immigrazione stimato in circa 200mila persone in media all’anno). A questo non si può che rispondere con un forte aumento della partecipazione al lavoro di chi è oggi inattivo, in larga misura non per scelta. Ma occorre un deciso miglioramento delle competenze dei nostri studenti che ancora si collocano, nelle rilevazioni dell’Ocse, al di sotto della media, in gran parte per forti ritardi nel Mezzogiorno.

Lo scarso livello di innovazione e istruzione plasma la struttura del sistema produttivo, estremamente frammentata in Italia, e a sua volta contribuisce a plasmarla. Sono troppo poche le imprese medio-grandi; insufficienti i loro investimenti in ricerca e sviluppo; ampie le carenze sul piano manageriale e poco diffuse le buone prassi gestionali. Un sistema frammentato e specializzato in settori tradizionali non alimenta la domanda di lavoratori con elevata istruzione, finendo per generare un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di lavoro. Riprendere un percorso di crescita sostenuta, equilibrata e duratura è una questione con implicazioni che vanno al di là della mera sfera economica, che incidono sulla salute dei cittadini, sulla qualità del loro tempo libero, sul loro tenore di vita. L’urgenza dei problemi posti dalla pandemia non deve farci perdere di vista le questioni che riguardano l’innovazione e l’istruzione, da cui dipende lo sviluppo nel più lungo termine. Per superare questa sfida, la nostra economia necessita di un’intensa trasformazione tecnologica e culturale.