L’Unione europea ha risposto nei mesi scorsi alla pandemia da Covid-19 con interventi senza precedenti nella sua storia recente e con una determinazione e rapidità inusuali per i riti procedurali europei nei quali è sempre doverosa la ricerca di un ampio consenso tra Stati membri e famiglie politiche. Nel frattempo, nel nostro dibattito pubblico, siamo passati con ammirevole disinvoltura dal più nero scetticismo sulla possibilità che il mastodonte europeo potesse cambiare passo, all’impaziente fretta di avere tutto e subito, come se le decisioni prese dal Consiglio europeo del 21 luglio scorso (a detta di tutti “epocali”) potessero essere magicamente attuate a poche settimane dalla loro adozione. Per un singolare strabismo, gli stessi che riconoscono la portata storica della svolta europea, chiedono che venga attuata nello spazio di un mattino.

Il coronavirus è una minaccia esistenziale per l’Unione europea perché ne mette in discussione alcuni principi cardine come il mercato interno e la libera circolazione delle persone. Per questo motivo, l’Ue ha messo in campo interventi d’urgenza a sostegno del tessuto economico-sociale dei Paesi membri e strumenti innovativi e articolati per la ripresa, come la proposta di un fondo finanziato dai mercati attraverso titoli di debito europeo. Sono i numeri a dare il quadro della forza e della dimensione degli interventi messi in campo, alcuni dei quali sono stati operativi da subito, mentre altri richiederanno, per complessità e implicazioni normative, tempi più lunghi. A partire dal marzo 2020 sono stati mobilizzati 4.200 miliardi di euro tra interventi nazionali, resi possibili grazie alla sospensione delle regole degli aiuti di Stato e del patto di stabilità, e interventi europei grazie alle tre reti di sicurezza (Bei, Sure e lo strumento di supporto alla crisi pandemica del Mes), accompagnati da un poderoso programma di acquisto della Banca centrale europea di 1.350 miliardi di euro.

A queste misure d’emergenza (ripeto: già disponibili dal 2020) si somma una strategia per i prossimi anni che, a partire dal 2021, prevede investimenti e riforme per rafforzare la crescita economica dei Paesi più colpiti dalla pandemia (ripresa) e per rafforzarne la capacità risposta a future crisi (resilienza). A questo scopo è destinato il bilancio europeo di 1.074 miliardi di euro per i prossimi sette anni e un fondo per la ripresa chiamato “Next Generation EU” con 750 miliardi di euro, di cui 209 assegnati all’Italia. Una strategia, questa, di cui si avrà traccia già nella prossima legge di bilancio, come caldeggiato dalla stessa Commissione europea in una lettera all’Italia firmata dal vicepresidente Dombrovskis e dal commissario Gentiloni, in cui si chiede al nostro Paese di approvare una finanziaria ’20-’21 che già tenga «il più possibile in considerazione l’attuazione delle riforme e degli investimenti previsti dal Recovery Fund».

Nei mesi di luglio e agosto abbiamo lavorato senza tregua per preparare le linee guida italiane che indicano le grandi direttrici di investimento e che coincidono con quelle indicate da Bruxelles, riassumibili in tre macroaree: transizione digitale, conversione verde e inclusione sociale. Parallelamente il Governo ha avviato i lavori di redazione del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr). Le linee guida approvate dal Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae) il 9 settembre spazzano il campo dalla disinformazione relativa a supposti “svuotamenti di cassetti” e alla pubblicazione di liste di progetti superati dal lavoro dei tecnici nel mese di agosto. Il calendario di impegni che abbiamo nei prossimi mesi, in parte fissato da Bruxelles e in parte determinato dalla complessità normativa dei nuovi provvedimenti europei e dalla necessità che si esprimano i parlamenti nazionali, è denso e serrato. A partire dal 15 ottobre comincerà il confronto tra i governi e la Commissione per affinare i Piani nazionali che poi verranno presentati a gennaio.

Il Pnrr è lo strumento con cui gli Stati membri possono accedere ai 672,5 miliardi di euro del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, di cui la Commissione stima circa 193 miliardi siano assegnati all’Italia. Il nostro Paese da troppi anni vive in una dimensione di bassa crescita per ragioni note a tutti, dal quadro normativo incerto alla burocrazia, dagli aspetti demografici alla qualità della formazione del capitale umano e alla dimensione d’impresa. Ora le risorse concordate con l’Ue ci offrono l’occasione storica di rimuovere i fattori che in questi anni hanno frenato crescita e investimenti e di mettere mano ad alcune riforme in settori chiave come quello della pubblica amministrazione e della giustizia. Si tratta di un’opportunità che non può essere sprecata: lo dobbiamo ai caduti della pandemia e agli italiani che sono stati in prima linea durante il lockdown, ma soprattutto lo dobbiamo ai giovani ai quali oggi finalmente possiamo offrire una speranza. Già dal 28 luglio nel Ciae, che ho l’onore di coordinare, abbiamo avviato i lavori di redazione del Piano nazionale.

Il Ciae, che vede la partecipazione di tutti i ministri e dei rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, è un’istituzione che consente un forte coordinamento centrale mantenendo un carattere inclusivo e un’interlocuzione continua tra livello tecnico e politico attraverso il Comitato tecnico di valutazione degli atti Ue (Ctv), a cui partecipano i rappresentanti tecnici delle amministrazioni centrali e locali nonché, in qualità di osservatori, i funzionari di Camera e Senato. Il Ciae e il Ctv hanno lavorato senza sosta anche in pieno agosto per la redazione delle linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza sulle quali vi sarà un ampio confronto in Parlamento. La presentazione formale del Piano potrà avvenire solo dopo l’entrata in vigore del regolamento che istituisce il Dispositivo per la ripresa e resilienza, prevedibilmente dal primo gennaio e non oltre il 30 aprile 2021.

Come spesso avvenuto in passato in situazioni d’urgenza, l’Ue e i suoi Stati membri faranno il massimo per consentire una tempestiva adozione degli atti legislativi, ma non mancano ostacoli. Un rallentamento dell’afflusso delle risorse potrebbe verificarsi per ritardi nelle venti ratifiche nazionali che autorizzano l’aumento delle risorse proprie del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 o per minacce di veto, come nel caso del premier ungherese Orban sulla questione della condizionalità tra accesso ai fondi e Stato di diritto. Le linee guida italiane, trasmesse al Parlamento lo scorso 15 settembre, sono strutturate in sfide e missioni. L’obiettivo è quello di affrontare alcuni ritardi strutturali del nostro Paese con riforme e investimenti che abbiano lo scopo di liberare il potenziale di crescita, rafforzare le capacità di risposta alle crisi come quella della pandemia, realizzare una strategia di ripresa economica basata sulle transizioni verde e digitale e sulla centralità della dimensione sociale.

Per entrare più nello specifico, i progetti di riforma riguardano la pubblica amministrazione, la giustizia, il fisco e il lavoro. Gli investimenti saranno concentrati su fattori chiave per il rilancio economico e sociale: dal cloud alla banda larga, da una gestione efficiente delle acque all’efficientamento energetico, dalla logistica integrata alla mobilità sostenibile, dagli interventi per l’occupazione femminile e giovanile a quelli per rafforzare il sistema sanitario. Oltre al fondo per la ripresa, l’Italia dovrà programmare con intelligenza anche l’impiego degli altri finanziamenti che arriveranno dal quadro finanziario pluriennale 2021-2027, per un totale stimato in circa 100 miliardi di euro in sette anni. Ci aspettiamo un impatto economico importante da queste misure.

Secondo Fabrizio Balassone, capo del servizio Struttura Economica della Banca d’Italia, sentito in Commissione Bilancio della Camera, abbiamo due possibili scenari: uno in cui tutte le risorse per la ripresa vengono utilizzate in maniera aggiuntiva agli investimenti programmati e un altro in cui soltanto i due terzi sono diretti a finanziare nuovi investimenti. Nel primo caso, gli investimenti potrebbero tradursi in un aumento del pil di circa tre punti percentuali entro il 2025. Nel secondo scenario, l’impatto sul pil raggiungerebbe comunque i due punti percentuali nel 2025.

La complementarità e l’additività delle risorse rappresentano caratteri determinanti per garantire un’efficace gestione del fondo “Next Generation EU”, la cui progettazione sarà coordinata con la presentazione della nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Abbiamo giocato d’anticipo e saremo pronti per avviare nel 2021 il progetto di riforme e investimenti che ha come obiettivo favorire una ripresa economica di lunga durata, fare dell’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050, essere pronti per l’era digitale e proteggere l’economia sociale di mercato e i nostri valori democratici che fanno dell’Europa (è bene ricordarlo) un unicum al mondo.