Nei giorni scorsi è circolato il report del primo semestre 2023 prodotto da Meta, la bigtech statunitense proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, e pubblicato sul sito www.disinfocode.eu, un progetto della Commissione Europa volto a contrastare fake news, disinformazione e ingerenze straniere sui social media e in generale nel mondo digitale. Si tratta di una importante iniziativa di co-regolazione tra Istituzioni europee e società bigtech che risale al 2018 con un primo codice di autoregolamentazione dei principali attori del settore, che è arrivato alla firma definitiva nel giugno 2022 e che è diventato effettivamente operativo da qualche mese. Il progetto peraltro precede il Digital Service Act, approvato dall’Unione Europea nell’aprile 2022, che finalmente proprio in questi mesi sta entrando in vigore e che costringerà tutte le grandi piattaforme digitali a tutta una serie di misure sulla carta efficaci di trasparenza e di contrasto alla disinformazione.

I dati hanno fatto discutere ma non hanno sorpreso gli addetti ai lavori: l’Italia è ai primi posti della disinformazione, almeno per quanto riguarda quella individuata e contrastata da Meta su Facebook ed Instagram. Se nell’attività di monitoraggio di fact-checker indipendenti è la Francia ad avere il primato con 7,4 milioni di contenuti identificati come “fake-news” nel primo semestre dell’anno contro i 7 dell’Italia, i 6,8 milioni della Germania ed i 6,1 della Spagna, è il nostro Paese ad avere il triste record di contenuti rimossi per disinformazione legata alla salute o ai temi politici: 45000 sono i contenuti rimossi in Italia, 22000 in Germania, 16000 in Spagna e 12000 in Francia. Complessivamente, nel primo trimestre del 2023 Facebook a livello mondiale ha bloccato 426 milioni di account identificati come fake, bot o comunque come divulgatori sistematici di fake-news, dato che nel secondo trimestre è cresciuto a 676 milioni di account, a dimostrazione dello sforzo che la bigtech guidata da Mark Zuckerberg sta oggettivamente facendo a livello globale per bloccare la disinformazione e le ingerenze straniere ed anche per allineare le proprie politiche interne alle norme europee recentemente entrate in vigore con l’approvazione del Digital Services Act.
I report di Meta toccano anche il delicatissimo tema della pubblicità online, su cui – peraltro – va ricordato che è in dirittura di arrivo un regolamento specifico da parte dell’Unione Europea di cui è relatore l’europarlamentare Sandro Gozi.

Se Meta quindi prova a dare il suo contributo, anche gli altri attori via via si stanno allineando, sebbene a velocità diverse. L’altro gigante bigtech Google, pur con tutte le sue particolarità di non essere un social media vero e proprio, ha pubblicato i suoi dati che dimostrano anche in questo caso un tentativo di contrastare la disinformazione su Google Search e su YouTube. In affanno invece le altre aziende: TikTok ha pubblicato il report, ma i dati che sono stati forniti sono decisamente inferiori a quelli dei propri concorrenti, segno di una minore attività di contrasto al fenomeno, mentre X-Twitter, il gigante acquistato e pesantemente rinnovato da Elon Musk, non ha ancora pubblicato i dati, ennesimo segno di un loro sostanziale disinteresse al tema.
Quello cui stiamo assistendo è sostanzialmente un riflusso dei social network. Dopo la “sbornia” da deregulation dei social network dello scorso decennio, culminata con lo scandalo di Cambridge Analytica e con le campagne elettorali di Donald Trump, della Brexit e – in Italia va sempre ricordato – del referendum costituzionale del 2016, va riconosciuto lo sforzo di alcune bigtech, Meta e Google in particolare, di provare a cambiare la situazione. A partire dal 2018, ad esempio, è stata per prima Meta a costringere chiunque voglia fare pubblicità politica ed elettorale a registrarsi su una piattaforma costruita ad hoc ed a fornire i dati di chi finanzia le attività, pubblicando poi tutti i dati, aggregati e disaggregati, su un sito dedicato proprio alla trasparenza. Google ha seguito a ruota, con normative di autoregolamentazione altrettanto stringenti. Meta ha poi negli anni successivi rimosso alcuni target politici specifici, ad esempio impedendo di fare pubblicità su utenti che l’algoritmo considerava come conservatori o come progressisti, mettendo i bastoni tra le ruote a molti attori della disinformazione politica. Il combinato disposto dei due interventi ha probabilmente ridotto gli introiti che Meta ha ricavato dalla pubblicità politica, ma ha anche diminuito fortemente la pressione della politica e dell’opinione pubblica dopo gli scandali della metà degli anni ’10 e fatto dormire sonni più tranquilli ai suoi dirigenti.

Tutto questo lavoro è sufficiente? Probabilmente no, ma sicuramente la strada è segnata ed è quella giusta. Rimangono molte zone d’ombra, ad esempio quelle relative alle attività di ingerenza di alcuni Stati esteri, la cui identificazione in questi report è sicuramente ancora sottostimata. Rimangono problemi con alcuni attori, primi tra tutti X-Twitter – il cui nuovo proprietario, Elon Musk, ha più volte detto che la libertà di informazione (ma aggiungiamo noi, anche quella di disinformazione) è intoccabile, tanto da aver agevolato il ritorno sulla propria piattaforma dell’ex Presidente USA Donald Trump, bannato dalla precedente gestione aziendale – e TikTok, la grande azienda cinese, che dà sicuramente segnali di disponibilità ma su cui rimangono enormi incognite rispetto alla gestione dei dati ed alla trasparenza.
Non è un caso che tutti questi sforzi di Bruxelles si concentrino in questi mesi. Le elezioni europee sono alle porte e con gli scenari internazionali di tensioni e forti cambiamenti – specie dopo l’invasione russa in Ucraina – la paura di ingerenze straniere nei processi di scelta politica è fortissima, tanto da aver indotto la Commissione europea, nelle scorse settimane, ad intervenire sulle bigtech a proposito delle attività di disinformazione registrate nella campagna elettorale della Slovacchia, che va alle urne nella giornata di domani.
L’entrata in vigore del DSA, da alcuni visto come un attacco alla libertà di pensiero ma in realtà agile e misurato strumento contro la disinformazione, è positiva: l’Europa ci prova, ora sta anche agli Stati membri fare il proprio lavoro nel contrasto delle fake news. E l’Italia, su questo, è però drammaticamente ferma, mentre altri Paesi europei istituiscono authority ad hoc.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva