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Non è vero che hanno preso senza dare nulla in cambio
Ius scholae, come gli studenti stranieri ci hanno mostrato ciò che non sapevamo più vedere
Gli studenti stranieri hanno portato nella scuola italiana la fame e la sete di Rocky Balboa, gli occhi della tigre dell’Uomo Tigre. Certo, i riferimenti non sono propriamente letterari, ma rendono bene l’idea. Scrivo oggi, per la prima volta, di un fenomeno che ho osservato nel tempo e su cui per anni ho riflettuto, forse perché sta diventando meno evidente di qualche tempo fa, come se andasse un po’ sfumando, e per questo sento quasi di volerlo consegnare.
In queste settimane, del resto, si parla con insistenza di Ius scholae, qualcosa che gli studenti stranieri in Italia potranno ricevere (cittadinanza) o che potranno offrire (lavoro e supporto al disfatto sistema pensionistico), qui invece vorrei porre attenzione sul passato, su un contributo che già hanno dato ai nostri ragazzi e che vorrei definire educativo. È vero, nelle classi troviamo ancora studenti italiani volenterosi e motivati, desiderosi di primeggiare, ma raramente scorgiamo la vera sete di apprendere, quella stessa che pare abbondasse nell’Italia del dopoguerra. Tra la fine degli anni e i primi anni Duemila, sono stati gli stranieri a riportare nelle aule ciò che da almeno vent’anni mancava: l’energia di chi sa riconoscere il valore delle cose e vive il desiderio di una nuova conquista. Vorrei documentarlo attraverso un piccolo viaggio nei miei ricordi di insegnante (saranno vent’anni nel 2025!).
Tra le prime studentesse mi ricordo di A. Era arrivata da pochissimo in Italia, la sua famiglia viveva nelle ristrettezze, ma lei cercava di essere dignitosa in tutto. Io ancora non la dimentico. Cosa insegnava a tutti, con il suo modo di essere e di vivere il tempo della scuola? Mostrava che ogni parola appresa è un bagaglio concreto, che la lingua è davvero un bisogno e un potere; mostrava, inoltre, che un insegnante si rispetta (cosa che ancora accadeva dalle sue parti), che la scuola è un’opportunità più che un obbligo. Non voleva perdere un istante di apprendimento perché dalla sua famiglia poco le poteva arrivare in quel senso. Vivendolo come urgenza, lo insegnava a tutti, il valore della scuola! Devo ammetterlo: lo insegnava anche a me, che avevo frequentato la scuola tra gli anni ’80 e ’90, quando una certa consapevolezza del suo valore era già sfumata (anche se oggi ce li raccontiamo in modo un po’ diverso, quei tempi). I compagni e le compagne un po’ la snobbavano, un po’ deridevano, disturbate da quell’eccesso di serietà, ma in fondo si interrogavano. La sua presenza pro-vocava nel senso letterale del termine: chiamava a interrogarsi su di sé.
A proposito di derisione, ricordo l’incontro con A. Continuava a rispettare con serietà il suo Ramadan, sfidato dall’ironia di alcuni compagni, ma non rinunciava. Nelle chiacchierate con alcuni amici però succedeva una cosa interessante: quando si accorgevano che, pur deridendolo, non lo scalfivano, finivano essi stessi per interrogarsi, e la loro era una domanda immensa: a cosa tengo io? Spesso trovavano un vuoto. Un vuoto di fronte a qualcosa, risibile ma caro. Da questa energia di vita anch’io ho raccolto a piene mani, coinvolgendomi tantissimo. Con loro è stato spesso più facile agire, perché la serietà di implicazione e la fame di sapere diventavano fiducia. Ho provato a ricambiare, ne sono nati momenti bellissimi di scuola, tra cui un percorso di public speaking (le “Microconferenze”) che richiedeva la scrittura e la realizzazione di brevi discorsi su di sé, le proprie passioni culturali, gli argomenti di studio. Sono nate cose bellissime e talvolta commoventi, anche con il coinvolgimento di alcuni colleghi.
Sollecitata da una bravissima collega, una di loro, B., ha ripensato alla bellezza della Divina Commedia nella propria lingua albanese: l’opera non è stata storpiata, ma scoperta meglio. Con un altro ragazzo, R., è venuto fuori un discorso sulle grandi figure della sua nazione, la Romania, su cui si è impegnato con fervore, lui che non era particolarmente volenteroso nello studio. Con D. siamo arrivati a raccontare pubblicamente il dramma della perdita del padre.
È vero, forse sto parlando di qualcosa che da qualche anno è evaporato un po’, e forse tanti insegnanti vivono più le problematiche legate alla presenza di studenti stranieri in classe, soprattutto quando fanno gruppo chiuso e talvolta ghetto, ma ho sentito il dovere di dare un riconoscimento a quello che ho vissuto, quasi un tributo storico: gli immigrati stranieri hanno mostrato il valore della scuola a chi non sapeva più vederlo. Non è vero che hanno preso senza dare nulla in cambio.
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