Qualcuno ha definito le Generali come una specie di Bce di scorta perchè ha in portafoglio 60 miliardi di titoli pubblici italiani. Naturalmente, si tratterebbe di una scorta moto limitata, la cui attivazione non potrebbe guardare esclusivamente agli interessi del Paese, ma dovrebbe sintetizzare gli interessi aziendali con quelli generali. Ma il riferimento all’ammontare degli investimenti in titoli viene sottolineato da alcuni per rappresentare la delicatezza della “confrontation” in atto tra Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, da un lato, con una complessiva partecipazione dell’11 per cento nel Leone di Trieste e Mediobanca, dall’altro, che è il primo azionista della Compagnia con il 13 per cento circa. Ma in quest’ultima Del Vecchio possiede il 19 per cento del capitale e si accinge ad arrivare al 20, mentre Caltagirone potrà raggiungere, per ora, il 5 per cento.

Le Generali, regnando Enrico Cuccia dominus assoluto di Mediobanca, erano la “pupilla dell’occhio” del grande banchiere e i ritorni della partecipazione contribuivano quasi per la metà ai risultati di gestione dell’Istituto di credito. Erano i tempi in cui quest’ultimo era il “salotto buono” dell’asfittico capitalismo italiano, la “stanza di compensazione” delle diverse società, il centro di elaborazione dei controlli societari attraverso i patti di sindacato, le partecipazioni incrociate, gli assetti piramidali, le scatole cinesi. La stessa Mediobanca riuniva insieme – cosa unica nel sistema italiano – tre funzioni, istituto di credito a medio e lungo termine, merchant bank e holding di partecipazioni. Il suo azionariato era composto, in maggioranza, dalle tre banche d’Interesse nazionale, Comit, Credit e Banco di Roma.

Nonostante che la maggioranza assoluta fosse pubblica, un patto di sindacato attribuiva ai privati la gestione dell’Istituto. Gli sviluppi dell’economia e i cambiamenti normativi indotti prevalentemente dalla Comunità europea già negli anni Novanta posero fine a questa posizione monopolistica costringendo l’Istituto a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Pochi anni dopo moriva Cuccia senza successori del suo livello. Ma Generali è rimasta sempre, e forse ancor più, cruciale per Mediobanca. Ora, però, si è manifestata, per la prima volta, una situazione di forte dialettica nell’azionariato della Compagnia. Il pomo della discordia viene presentato come riguardante la conferma o no per un altro triennio, alla scadenza ad aprile del prossimo anno, di Philippe Donnet, l’amministratore delegato del Leone di Trieste. Del Vecchio e Caltagirone hanno sottoscritto un Patto di consultazione, tra l’altro, sul voto nelle assemblee della Compagnia, ferma restando la completa libertà di entrambi di decidere come agire e come votare.

Essi ritengono necessario che si affermi una discontinuità nella gestione verso la quale sottolineerebbero una insoddisfazione con riferimento alla mancata crescita delle Generali per linee esterne e alla perdita di terreno nei confronti dei competitori europei, Allianz, Axa e Zurich; da parte di Mediobanca, invece, anche se finora non vi è alcuna pronuncia ufficiale, ci si orienterebbe verso la conferma di Donnet. La distinzione è acuita dal fatto che anche il consiglio di amministrazione del Leone ha la facoltà di decidere la lista per il rinnovo degli organi deliberativi e di controllo, una facoltà, tuttavia, propria di un organo autoperpetuantesi, una sorta di scelta dinastica, non propriamente compatibile con la dialettica e l’adesione agli indirizzi dell’azionariato. Di qui la contrarietà dei due suddetti azionisti acchè il consiglio si avvalga di tale facoltà. Il 27 settembre quest’ultimo organo dovrebbe assumere una decisione. Ma in una Compagnia in cui i confronti sono stati spesso ovattati e, a volte, di essi si è saputo solo al compimento delle scelte conclusive, ora si apre una pagina nuova.

È fondamentale che, però, siano chiari i contenuti delle rispettive posizioni le quali hanno al vertice la questione “discontinuità o continuità” del management, ma che sottendono verosimilmente importanti alternative strategiche, organizzative e di governance che è interesse primario conoscere, sì e “in primis” da parte degli azionisti tutti, quindi, con essi, dei risparmiatori e degli assicurati, ma è anche interesse averne contezza da parte delle istituzioni rappresentative e del Paese. Le Generali, un tempo definite la “multinazionale italiana”, sono, in senso lato, un “patrimonio” dell’Italia con la loro storia, con tutto ciò che hanno tratto dalle politiche e dalla legislazione italiane (al di là della lontanissima impronta, nell’Ottocento, austro-ungarica). I termini del confronto devono essere chiari e trasparenti, se si vuole evitare la critica, che qualcuno inizia a formulare, di una lotta di potere, che può, certo, essere una componente – non si è così ingenui da escluderla – ma può acquisire una sua validità se legata a opzioni strategiche sostanziali e a rilievi sull’operato di organi che siano motivati, come ora appare.

Ciò vale pure, ovviamente, per la linea opposta ove negasse il bisogno di discontinuità, come sembra. Insomma, si possono aprire porte e finestre con vantaggio per tutti, evitandosi che si ripeta quel che avvenne all’epoca della presidenza Geronzi, nel 2010-11, quando furono proposte dal presidente innovazioni e revisioni importanti che, invece, furono osteggiate e rifiutate, ma che, poi, negli anni successivi si dovettero ugualmente introdurre. Nel frattempo, nelle cronache rifluiva una versione della vicenda completamente alterata. Sin dai prossimi giorni si potrà comprendere, insomma, come evolverà questa vicenda e se sarà posta sul giusto tracciato.