Stavolta ha perfettamente ragione Conte: la leadership indica sempre un rapporto politico, non un evento giuridico. Il fatto che sia caduto per le sue stesse architetture seicentesche (come le chiamava Grillo) non elimina la sostanza del problema: con i suoi pasticci sugli aventi diritto e con le forzature regolamentari di uno statuto barocco, l’avvocato era comunque il presidente di un organismo politico.

Che proprio al non-partito, con in dotazione una visione illiberale e giustizialista del mondo, tocchi la stangata di una procura che ne delegittima i vertici costituisce una sorta di vendetta a suo modo meritata. E però la malevola soddisfazione che può affacciarsi in taluni dinanzi alla nemesi di una organizzazione antipolitica messa in ginocchio da una ordinanza della magistratura non elimina la stortura rappresentata dai costi elevati di una invadenza sistematica dell’organo giudiziario. Quando la Consulta nel 2006 ha precisato che “i partiti politici vanno considerati come organizzazioni proprie della società civile e non come poteri dello Stato” ha escluso una regolamentazione coercitiva dell’ordinamento interno e ha così riconosciuto l’autonomia, di natura rigorosamente privato-sociale, delle formazioni politiche. Il tema della funzionalità dei partiti, della trasparenza, del rispetto delle prerogative degli iscritti rimane in tal senso una questione politica che esclude la previsione di pervasivi dispositivi per effettuare i controlli di legalità.

Il non-partito grillino era, sin dalla gestazione microaziendale, una demoniaca invenzione che affidava alla seduzione di parole d’ordine ricavate da algoritmi infernali la creazione delle onde del risentimento di massa. Nella gestione opaca degli arcani meccanismi della decisione in ultima istanza, il movimento strutturalmente si poneva agli antipodi della forma democratica. E tuttavia, dinanzi all’autonomia dei partiti quali soggetti privi di personalità giuridica, non tocca alle toghe dirimere le controversie di natura politico-organizzativa. Non si può sciogliere con una sentenza la vicenda illiberale del movimento che comunque raccoglie voti senza ricorrere alle pallottole. Una volta che il programma ingannevole e primitivo, ritagliato dai 5 Stelle secondo le semplificazioni rancorose suggerite dalle curve di un algoritmo, viene sottoposto al conteggio delle schede, la vita e la morte del non-partito risulta consegnata unicamente alle dinamiche politiche del consenso. Dinanzi ad una forza anti-politica che nondimeno nel 2018 raccoglie un consenso maggioritario si pongono problemi squisitamente politici e, semmai, interrogativi relativi al grado di cultura civica del paese.

Non si possono evocare con disinvoltura degli interventi giudiziari per comminare sanzioni rispetto a violazioni di norme statutarie entro associazioni non riconosciute. Si tratta di questioni politico-culturali che si sciolgono con le libere dinamiche del consenso le quali rinviano allo scontro di forze antagoniste e non possono in alcun modo essere sbrigate secondo il metro (geneticamente grillino) del codice legale-illegale che intende eliminare gli enigmi della politica secondo i tempi delle carte bollate. I 5 Stelle sono certamente una non-organizzazione che in un misticismo della piattaforma si pone agli antipodi delle tecniche e delle procedure democratiche, ma la vicenda del movimento è politica e lo scontro sulla leadership non si affronta con i cavilli dei tribunali.

Il grado di democrazia presente nei soggetti della politica italiana di sicuro non può ritenersi incrementato dopo l’entrata in scena della magistratura, che si è preoccupata di dirimere una controversia tra le parti che dovrebbe rimanere di natura politica. Non può essere un tribunale a stabilire con le carte bollate il fondamento legittimo di una relazione con il capo politico. Anche se carente, la leadership evoca essenzialmente una connessione politica. Il riconoscimento della legittimità di una leadership, entro un soggetto che appartiene alla sfera dell’autonomia privata e con il voto svolge una funzione nelle istituzioni rappresentative, non può riguardare una procura. È lecito condividere quello che anche Grillo aveva dichiarato, cioè l’inconsistenza di Conte come capo politico, privo di visione. Però che l’avvocato del popolo sia un politico posto al comando con delibere che vanno sospese perché denotano un difetto di legittimazione non è un fatto che spetta alle procure disvelare. In assenza di una legge organica sui partiti non si giustifica l’intervento di un giudice che, nel vuoto normativo che circonda lo status debole di una associazione non riconosciuta, mira a sanzionare violazioni e abusi con decisioni accompagnate da un elevato momento di discrezionalità.

A prescindere dalle sue dinamiche opache, anche un non-partito dall’anima illiberale diventa un soggetto democratico a tutti effetti, nel senso che la libera raccolta del consenso emana la forza capace di sanare le origini e le consuetudini poco trasparenti. In quanto soggetto legittimato dal voto popolare il M5S, quale che sia la sua forma privatistica di organizzazione, appartiene del tutto coerentemente alla sfera pubblica ed è quindi meritevole di tutela e protezione anche rispetto al potere giudiziario che si erge a guardiano dei valori ultimi. È evidente che la democrazia è impoverita quando un non-partito, sulle cui visioni illiberali della rappresentanza è sempre giusto e opportuno condurre una aspra battaglia culturale, è ostacolato dai giudici nella sua capacità di operare liberamente nello spazio pubblico. Avendo la propria testa di comando annichilita da un provvedimento della magistratura che opera quale sovraordinato potere dei poteri, il M5S versa in una condizione obiettiva di minorità e ciò restringe sensibilmente la vita democratica nel suo complesso.