Il calcio non è solo uno sport: è un insieme di fenomeni socioculturali legati al gioco del calcio, e per questo nell’Europa di oggi e domani la competizione più popolare di tutte ha un ruolo aggregante fondamentale. Il via alla Champions League, che da questa stagione 2024/25 ha una nuova formula, assume un’importanza cruciale non solo per capire le politiche sportive ma anche per ragionare su come sarà l’Europa di oggi e di domani.

La formula

Nel calcio comanda l’Uefa. Che è una federazione (europea in senso geografico) di federazioni (nazionali) e che in quanto tale dovrebbe distribuire i suoi ricavi alle sue associate (federazioni e leghe nazionali). Invece per scongiurare la nascita di una Superlega europeaSilvio Berlusconi in un’intervista ad Alberto Costa su La Stampa la paventava già nel 1988 – dal 1992 iniziò a riformare la vecchia Coppa dei Campioni e a distribuire montepremi sempre crescenti direttamente ai club. Questo ha alimentato una disparità che ha minato la competizione sia nei campionati nazionali (basti pensare alle incredibili serie di vittorie consecutive di Bayern, Juve, PSG o al duopolio Real Madrid-Barcellona in Spagna) che nelle stesse competizioni europee. Ignorando la mutualità ha creato divari a oggi incolmabili. Il Real Madrid ad esempio è il club più ricco e fattura un miliardo, ma giocherà tra le altre contro il Lille che fattura un quarto di lui e il Brest un decimo.

Negli anni 80 ben 16 federazioni ebbero accesso alle semifinali della Coppa dei Campioni, nell’ultimo decennio solo 6. L’ultimo vincitore fuori dal perimetro Italia-Germania-Inghilterra-Spagna (la Francia ha fatto solo una finale col PSG) è stato il Porto di José Mourinho nel 2004. È successo fondamentalmente per due ragioni: fino al 1992 “uno valeva uno” (una squadra campione per una federazione), ma l’Uefa ha deciso a quel punto di aprire alle seconde e poi dal 2000 alle terze e alle quarte. Da quel momento in avanti i posti sono stati distribuiti in base a criteri variabili, finendo alla lunga per premiare i più ricchi (ovvero i mercati televisivi maggiori) soprattutto da quando nel 2000 anche le terze e le quarte sono state ammesse.

Nel 1995 la Legge Bosman ha liberalizzato la circolazione dei calciatori, ma ha creato una divaricazione: mercato europeo per l’approvigionamento del talento (i calciatori) in un contesto in cui le competizioni sono rimaste principalmente nazionali. L’Uefa questa novità del ‘95 l’ha subita, ma poi nel 2012 col Fair Play Finanziario ha imposto controlli di Bilancio ai club: nato con buoni propositi (e risultati positivi in termini di riduzione delle perdite e dei debiti) ha finito per cristallizzare i valori, diventando un sostanziale blocco all’ingresso di nuove realtà. Tra tutte le regole sbagliate del FFP una su tutte: i club possono spendere fino a un massimo del 70% del loro fatturato. In un sistema in cui il primo fattura 1000 e il ventesimo fattura 100, significa incatenare i valori e svilire piani di crescita e potenzialità di investimento.

Lo scenario

Recentemente Philip Buckingham su The Athletic – che è il braccio sportivo del New York Times ma calcisticamente ha testa, cuore e firme a Londra – ha titolato “La Champions ha mangiato il calcio”, alludendo con questo alle enormi disparità che la creazione del torneo continentale più prestigioso ha creato. Ha pienamente ragione. Non è un caso se gli inglesi nella seconda metà degli anni 2000 vedevano l’Uefa come il grande nemico perché aveva arricchito quattro club sempre presenti in Champions (Manchester United, Arsenal, Liverpool e Chelsea) e la Premier League finiva sempre con queste squadre al vertice.

Quest’anno l’Uefa, che ha visto triplicare i ricavi (sponsor e tv) dal 2011 a oggi, incasserà 4,4 miliardi di euro, ne distribuirà 3,3 ai club di cui ben 2,4 (il 72%) a quelli che andranno in Champions League. I ricavi aumentano mentre le leghe nazionali faticano; da noi diversi presidenti (insieme all’ad della Serie A, Luigi De Siervo) dicono ormai che la Champions League è un competitor del nostro campionato, perché in un calderone di risorse (televisiv) limitate ne toglie al sistema nazionale. E se nel 2021 – quando alcuni club secessionisti lanciarono la Superlega – si disse che il calcio era in guerra, oggi è iniziata la guerra fredda: da una parte l’Uefa impone sempre più partite (17 turni totali contro 13 per chi arriverà in finale, 144 gare solo nel girone unico contro le 96) sovrapponendosi alle competizioni nazionali. Ma a differenza che in passato leghe e federazioni non ne hanno dato l’esclusiva: questa settimana ad esempio oltre che la Champions si sono giocate partite anche in Inghilterra (Coppa di Lega) e altri paesi. I calciatori hanno iniziato a minacciare scioperi perché si gioca troppo: la cosa non pare dietro l’angolo ma è un altro sintomo di malessere in una stagione che si chiuderà a metà luglio con un’altra competizione nuova, il mondiale per club Fifa.

Il futuro

Le disparità continueranno ad aumentare, ma la domanda rimane: che calcio vogliamo? O meglio, che Europa vogliamo raffigurare attraverso il calcio? Quella attuale è polarizzata. La Spagna (ovvero il Real Madrid, il Barcellona è un relitto ma troppo grande per fallire) e l’Inghilterra vincono più di tutte; poi veniamo noi e i tedeschi (loro quantomeno chiudono i Bilanci in utile, lo scorso anno +44 milioni aggregati, i nostri ne hanno persi 400). La logica è sempre stata quella della rappresentanza federale: in base al peso politico e dei mercati televisivi si ottengono 4, 3 o 2 rappresentanti qualificate di diritto ai gironi o ai preliminari. Le altre federazioni vivono di exploit e dai quarti di finale in poi valgono zero.

E se invece in Europa ci fossero veramente degli Stati Uniti? Se pensassimo come unitarietà? Difficile immaginare di togliere (fatturati) ai ricchi per darli ai poveri. Più facile imporre un tetto salariale vero, uguale e accessibile a tutti, spostando l’attenzione dei controlli dai ricavi (come oggi) ai costi, per favorire una reale distribuzione del talento, disincentivando i prestiti, bloccando le rose, ragionando in maniera egualitaria come negli sport Usa, magari introducendo i draft al posto del mercato liberista di adesso. Non solo. Bisogna cambiare paradigma, pensare a una piramide che parta dai grandi club e incentivi i grandi bacini d’utenza: oggi città come Varsavia, Praga, Budapest, Dublino, ma anche le stesse Amsterdam e Bruxelles e le grandi capitali scandinave sono sostanzialmente escluse dal vertice semplicemente perché giocano in campionati non appetibili televisivamente e quindi i loro club sono più poveri.

Lo disse chiaramente il presidente del Legia Varsavia qualche anno fa in una lettera aperta all’Uefa: “I nostri avversari non sono i top club ma le società medie di Italia e Spagna che incassano 50-60 milioni all’anno di diritti tv, 10 volte i nostri, solo per la loro ubicazione geografica, anche con poco seguito di pubblico”. E attenzione perché lo stesso vale per gli altri sport: Berlino fa 6mila persone a vedere la pallavolo (più di qualsiasi club italiano) ma la Bundesliga è un campionato che non attira talenti e non le permetterà mai di eccellere in Europa. Bolzano e Trieste sono città dalla storica vocazione pallamanistica ma non giocheranno mai la Champions, perché le competizioni anche lì sono nazionali e non si va oltre il confine. Se la lega centrale fosse europee cambierebbe tutto.

Il bivio

Non ci sono dubbi sulla scelta da fare: ripensare il calcio (e lo sport tout court) oppure condannarsi all’eterna favola di Davide e Golia come unica logica dominante. In fondo l’Europa del calcio ha gli stessi problemi dell’Europa politica: deve pensarsi come una somma di paesi (federazioni in senso sportivo) oppure come un tutt’uno dove gli investimenti sono guidati dai bacini d’utenza (che poi sono tifosi, gente e passione, il vero calcio del popolo) per creare grandi club? Qualche anno fa la Superlega tentò la secessione, venne sconfitta politicamente e criticata dai populisti di ogni paese. Ma vinse giuridicamente il 21 dicembre 2023 alla Corte di Giustizia dell’Unione europea che riconobbe che l’Uefa viola le norme sulla concorrenza, agendo da monopolista, e deve dire chiaramente come i club possono chiamarsi fuori dal sistema.

La Superlega non è mai esistita e oggi la Champions League è l’unica competizione europea d’elite in campo, ed é sua la responsabilità di disparità sempre più grandi, che dimostrano come la gestione liberista dei mercati sportivi sia del tutto inefficiente se si vogliono incentivare competitività, competizione e contendibiità delle prime posizioni. Purtroppo (sembra di parlare di politica ed economia più che di sport, ma tant’è) non si vedono all’orizzonte presidenti e dirigenti illuminati pronti a rinunciare al loro particolare per ragionare in termini di sistema. Ma quelle istanze sono più vive che mai, pena un eterno arricchimento dei primi della classe a scapito degli altri in competizioni sempre più esclusive (e alla lunga noiose) e poco inclusive se non per ammettere qualche sparring partner da maltrattare sportivamente ai primi turni, come del resto accade da quasi 20 anni a questa parte.