Napoli-Juve di sabato 11 settembre è stata decisa da tre errori di gioco, inammissibili a quel livello. Mera casualità e mancanza di professionalità da parte di giocatori superpagati? Una spiegazione sbrigativa come questa sarebbe del tutto superficiale. Il fatto è che l’industria del calcio è stata, ormai da tempo, sottoposta ad un ritmo vorticoso, del tutto indifferente alla salute psico fisica degli atleti. Tale ritmo dopo il lockdown è stato, per ragioni soprattutto economiche, addirittura accentuato. Tutto il mondo del calcio appare immerso in una corsa per la sopravvivenza, che sembra portare diritto al suicidio.

Cosa è successo? Il calcio viene da anni di una crisi economica irreversibile, che la pandemia ha solo accentuato. Se si guarda al campionato italiano, sono sufficienti pochi numeri per comprendere quanto insostenibile sia la situazione. La serie A ha un fatturato annuo di 2,7 miliardi di euro, e costi per 3,5 miliardi. È generato, perciò, ogni anno un deficit strutturale di ottocento milioni di euro. In realtà il deficit è probabilmente ancora maggiore ove si consideri che il 20% circa del fatturato è costituito da plusvalenze, ed è molto forte il dubbio che diverse di esse siano fittizie: due squadre scambiano giocatori che hanno pagato un milione ciascuno valutandoli invece venti milioni ciascuno e così aggiungendo fittiziamente diciannove milioni al valore della produzione. Di fronte ad una situazione del genere non può stupire che l’indebitamento verso l’esterno raggiunga l’80% del valore della produzione. Le serie minori hanno, a loro volta, una situazione in proporzione egualmente assai pesante.

È ovvio che un sistema produttivo che genera ogni anno perdite per quasi un miliardo di euro corre verso il precipizio. Che il sistema calcio generi perdite non è una novità. Quello che, tuttavia, è radicalmente mutato è il modello di business. Il mondo del calcio è stato a lungo il regno del mecenatismo. La titolarità di una squadra di calcio diventava il fiore all’occhiello di un imprenditore, che acquisiva, di fronte ad una collettività, il merito inestimabile di soddisfare l’orgoglio dell’appartenenza ad una bandiera. Il che garantiva anche vantaggi inestimabili: apprezzamento sociale, relazioni privilegiate, accesso a commesse, in alcuni casi addirittura immunità sul versante penale. Man mano che questi privilegi sono, per vari motivi, venuti meno, il mondo dei mecenati si è assottigliato, sino a scomparire quasi del tutto.

La situazione italiana è del tutto simile a quella degli altri paesi europei. Basta ricordare la gravissima crisi del Barcellona. I soli in condizione di rinverdire l’era del mecenatismo sono i pochi titolari di fortune planetarie.
I tentativi per cercare di risalire la china si muovono in due direzioni. Chi governa il calcio mondiale e quello europeo, rispettivamente Fifa e Uefa, immagina di poter rimettere in carreggiata il sistema calcio moltiplicando le partite. Di qui, tra l’altro, la proposta di giocare il campionato del mondo non più ogni quattro anni, ma ogni due. A loro volta, alcuni club europei hanno cercato di dare vita ad una superlega, di elevatissimo livello tecnico, in modo da monopolizzare, di fronte ad una platea planetaria, l’audience televisiva e, per questa via, moltiplicare gli incassi.
Sono prospettive che hanno una vittima designata: il calcio come movimento sportivo organizzato di massa.

Aumentare la frequenza del campionato del mondo o creare una superlega di carattere planetario significa cercare di dragare in profondità l’insieme degli appassionati per convogliarli su tali eventi, lasciando uno spazio sempre più ridotto al calcio estraneo a quella dimensione. Significa, anche, trasformare il calcio da sport di massa a mero spettacolo di massa. Contemporaneamente, da un lato il calciatore, divenuto idolo globale, non incontra più limiti alle sue pretese, dall’altro, in virtù del principio per cui “the show must go on” non è più trattato come un uomo ma come un robot. Il fatto che, poi, si possa per questa via salvare il calcio di élite è tutto da dimostrare. L’impressione, difatti, è quella di una spirale senza fine alla ricerca spasmodica di un equilibrio tra costi ed entrate, che non potrà mai essere raggiunto.

Queste considerazioni portano a ritenere che la strada da percorrere debba essere tutta un’altra. La parola che su tutti i temi del futuro oggi è utilizzata per individuare la direzione di marcia è sostenibilità. Sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, sostenibilità economica, etc. Non si comprende, allora, perché il pianeta calcio possa sottrarsi al criterio della sostenibilità. Se il futuro del calcio non sarà sostenibile, tutto quel mondo è destinato a crollare. Il fallimento di una società di calcio è ormai, da tempo, vicenda non eccezionale. Ma il rischio è che possa crollare tutto il sistema. La grave situazione economico finanziaria di quest’ultimo impone che chi lo governa individui al più presto i modi più opportuni per ridargli equilibrio. Tetti agli ingaggi, limiti alle provvigioni per i procuratori, riscoperta dei vivai, valorizzazione del calcio di base sono la via maestra per recuperare la via della sostenibilità.