Il racconto
La guerra in Libano ieri come oggi, nel 1982 mi salvai recitando la formazione dell’Italia ai mondiali
Sono uno dei superstiti del corpo di spedizione dei giornalisti italiani in Libano e il fatto che la guerra stia ricominciando anche sul terreno, con la reazione israeliana agli sciiti di Hezbollah, riporta a quei giorni di quaranta anni fa: la storia si replica e certamente non in forma di farsa, oggi gli sciiti libanesi sono un braccio armato dall’Iran mentre allora il rapporto fra Teheran e mondo sciita era meno militare. Le loro plurime conquiste di Beirut avvenivano all’insegna della crociata contro ebrei, cristiani e chiunque bevesse alcol. E tutti noi cronisti che abitavamo all’Hotel Commodore o al Cavalier pensammo che prima di morire avremmo dovuto svuotare tutte le bottiglie di whisky, vodka, vino e le lattine di birra. Io sono astemio e fu un disastro.
La formazione italiana ai mondiali mi salvò
Partii per Beirut la prima volta nel 1982 per andare a vedere la novità del primo contingente italiano all’estero dalla fine della guerra, comandato dal generale Franco Angioni che si accampò con perfezione di ogni dettaglio ed eleganza fuori dalla capitale. I soldati americani erano bassi, straccioni e pieni di fango, mentre quelli sceltissimi del contingente italiano indossavano uniformi che sembravano di sartoria. E i mezzi militari italiani, unici, erano dipinti di un bianco scintillante. Gli israeliani erano entrati in Libano per bloccare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Appena arrivato vidi nel porto di Tripoli del Libano la chiatta blindata “My Charm”, avvolta dalle fiamme del fosforo con il carro armato sovietico del presidente dell’Olp Yasser Arafat che ardeva come Giordano Bruno. Dall’orizzonte marino era partito un lampo tra lo sgomento dei palestinesi. E il falò continuò giorno e notte.
Io facevo foto e fui arrestato dalla vigilanza palestinese. La stessa cosa mi accadde sulla Bekaa quando un biondo ufficiale siriano dagli occhi azzurri mi spianò la pistola in faccia urlandomi “You Shalom”, volendo dire che ero ebreo. Quella volta me la cavai recitando la formazione italiana ai mondiali, come nei film.
La guerra all’alcol di Hezbollah
Al posto di polizia fui interrogato insieme ad un vecchio egiziano trovato con in tasca troppi elastici e ben due torce elettriche: fu accusato di segnalare le postazioni palestinesi al dissidente e nemico Abu Mussa e lo uccisero con un colpo in fronte davanti a me. Il suo corpo allagò il pavimento di urina e sangue in pozze separate. Accertato che io fossi davvero un “As safir Talìe”, un giornalista italiano, ricevetti un bicchiere di thè bollente con zucchero e menta che tracannai.
Poi gli sciiti presero Beirut (e poi la persero e la ripresero) e noi sbandati fotografi di parole decidemmo di riunirci italiani e stranieri di tutte le testate con tutti i corpi militari di peace-keeping all’Hotel Cavalier dove il proprietario e pianista leggendario Joe Diverio suonava le sue canzoni, ma particolarmente Margherita e le canzoni di Tenco e tutti urlavamo scomposti e stonati (salvo gli scozzesi che accompagnavano col violino in kilt). Molte le uniformi e ancora di più i cocktail per non dire delle raffiche. Sulla porta, impassibile, il nostro vecchio autista di fiducia Shamir, sordo come una campana, sempre col suo lucidissimo mitra Kalashnikov dal calcio di mogano. Shamir non sentiva le bombe e quando eravamo in macchina attraversavamo con souplesse le esplosioni, salvo minime correzioni sul volante. Gli sciiti Hezbollah avevano promesso la morte a chiunque bevesse alcol. Ettore Mo del Corriere della Sera si era ficcato due lattine di birra nelle tasche dei jeans e una esplose trapassata da una pallottola. Lui rimase impassibile, un po’ seccato.
L’arrivo di Hezbollah in hotel
Mentre gli Hezbollah avanzavano ed erano a cento metri dal Cavalier, noi militari e giornalisti come condannati al supplizio suonavamo, cantavamo a squarciagola e ci ubriacavamo solo per non far cadere il nostro alcool in mani sciite. Fu l’ultima volta che mi ubriacai di una ubriachezza quasi letale strisciando come un bruco sui gradini che portavano ai piani. Gli sciiti sparavano senza sosta e alcuni colpi entravano come calabroni: ci furono tre esplosioni di automobili al tritolo e in cielo i colpi dei grandi calibri dell’ultima corazzata americana sulla Bekaa, colpi che, come camion, sorvolavano Beirut col respiro Rolls Royce. Gli sciiti entrarono in albergo, ci fu una breve sparatoria di pura presa d’atto reciproca. Gli sciiti dissero che eravamo autorizzati a bere ma senza far uscire una bottiglia dall’albergo. Fu la notte in cui mio padre, in pensiero per le notizie e il taglio dei telefoni, riuscì a trovarmi attraverso Italcable e io non sapevo come nascondere sia la mia voce alcolica che il suono metallico della guerra. Tutto bene, gli dissi, tutto regolare. Poi cadde la linea. Il giorno successivo verso il tramonto salii sulla Bekaa e mi imbattei in un carro israeliano parcheggiato sotto i cedri abitato da soldati israeliani liceali, maschi e femmine che suonavano, cantavano e parlammo di cinema. Poi la loro radio gracchiò e in meno di trenta secondi con il loro carro armato sparirono nel bosco.
Beirut divisa in due come Berlino
Le case di Beirut erano macerie e si sparava ovunque, le fazioni erano tantissime e i posti di blocco anche. Ci si metteva in salvo con un po’ di corruzione e un po’ di faccia tosta. O si restava sotto un blindato con dentro un morto di tre giorni mentre qualcuno da una finestra ti sparava per esercitarsi. I bambini di tre anni sapevano maneggiare una pistola più grande di loro e la città era divisa in due, Est ed Ovest come a Berlino. Scrivevamo corrispondenze frettolose e mangiavamo seguendo truppe libanesi, israeliane, gli italiani e lo stesso Arafat. I palestinesi dovettero lasciare il Libano tra grandi feste e sparatorie di cui ho le registrazioni. Alla fine, l’Italia fece il beau-geste di spedire la nave Appia per trasferire i palestinesi in Tunisia. Ma la guerra continuava.
Gli sciiti di Hamal spiegavano sugli spalti del castello le grandi bandiere nere e un giorno con il collega Di Dio del Messaggero ci trovammo sotto il tiro di questi sciiti dissidenti, senza una ragione. Poi trovammo due fucili Kalashnikov e li imbracciammo per farci delle fotografie e forse per la nostra postura giocosa e bellicosa smisero di spararci e cominciò a piovere.
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