Se l’ordine di arrestare 91 persone parte da Palermo, come è accaduto due giorni fa, il primo pensiero è “mafia”. E la memoria corre alle stragi, a Falcone e Borsellino, alle loro auto saltate in aria. E anche ai tanti esponenti politici e giornalisti uccisi dalle cosche. E alla guerra tra bande, i corleonesi contro “gli altri”, e gli altri erano tutti. Compresi i “pentiti” i quali, una volta liberi, tornavano sul territorio (come fece Totuccio Contorno) a consumare le proprie vendette. E il sangue continuava a chiamare altro sangue. Faide violente per il controllo del territorio, si diceva. Tanto che a un certo punto, quasi non fosse sufficiente l’articolo 416 del codice penale, l’associazione per delinquere (solo in Italia esistono i reati associativi, nel resto del mondo si aggiunge l’aggravante se il reato è commesso da più persone), fu introdotto il 416 bis, dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa nel 1982, per qualificare l’associazione come “mafiosa”.

Controllo del territorio dunque, e assoggettamento delle persone tramite forza intimidatrice. E bombe e omicidi a colpire chi non cedeva, chi non si assoggettava. Sullo sfondo il grande protagonista, ieri e oggi, il traffico internazionale di sostanze stupefacenti, il mercato più redditizio che continuerà a tenere in piedi le organizzazioni criminali finché il mondo occidentale non capirà che solo un piano concordato di legalizzazione potrebbe rendere non più conveniente il mercato clandestino. E anche l’esistenza stessa delle “mafie”. Ammesso che possano ancora definirsi tali quei comitati d’affari, i quali non per caso agiscono nel nord d’Italia, che non hanno neanche più bisogno di intimidire, salvo qualche coda nei piccoli centri della Sicilia o della Calabria, per sviluppare i propri interessi.
Vincerebbe chi scommettesse che dei 91 arrestati di questi giorni ben pochi resisteranno alla pesca a strascico fino a un processo e una condanna.

Nonostante una scenografia che ha visto l’impiego di 50 uomini attivi in Sicilia, Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Campania. Sono state depotenziate di forze dell’ordine ben nove Regioni per colpire un’associazione i cui componenti si sarebbero resi responsabili, oltre che di traffico di sostanze psicotrope, dei reati tipici di chi deve reinvestire, cioè “pulire” i guadagni dalla droga. Cioè trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio, reimpiego di capitali illeciti. Oltre all’esercizio abusivo di giochi e scommesse.

E naturalmente l’associazione di stampo mafioso, prevista dall’articolo 416 bis del codice penale. Che è la contestazione principale, quella che giustifica, oggi e sempre, il ricorso alle manette. Ma ha ancora senso parlare di “mafia” di fronte a quelli che sono ormai riconosciuti dagli stessi magistrati come dei veri Comitati d’affari? Prendiamo uno che se ne intende, perché vive in terra di ‘ndrangheta, ormai quasi l’unica associazione criminale esistente e attiva. Il procuratore Nicola Gratteri viene intervistato anche quando la retata non l’ha fatta lui ma il suo collega di Palermo, il procuratore Lo Voi. Da settimane l’alto magistrato di Catanzaro ha lanciato l’allarme: attenti, dice, perché gli interventi statali conseguenti all’impoverimento determinato dal blocco dell’economia in seguito alla presenza del Covid-19, fa gola alle mafie.

E ieri l’ha precisato meglio: “Alberghi, ristoranti, parrucchieri. Le mafie si comprano i brand d’Italia”, ha detto a La Stampa. Precisando: “Dal welfare mafioso al doping finanziario”. Non sta descrivendo l’attività di un povero contadino analfabeta come Totò Riina, che risolveva i conflitti con le armi e il tritolo, ma di qualcuno che magari ha studiato e che maneggia capitali con metodi illegali nel mondo dell’economia, del commercio e forse anche della finanza.
Il metodo mafioso? La forza intimidatrice che assoggetta? Ma non ce ne è più bisogno, lo stesso Gratteri lo sa bene. E lo descrive nei suoi libri e nelle sue innumerevoli interviste. Dice chiaramente che non si uccide più, ma “si compra”. Si commercia di tutto, nel mercato legale, spesso senza neppure commettere reati, perché la liquidità a loro disposizione è tanta. Interessano più i soldi che il potere ormai. E il “territorio” è l’Italia intera, anzi il mondo intero. Sono altre generazioni, che hanno fatto passi di lato rispetto ai loro padri.

Saranno anche stati arrestati in questi giorni rampolli di “famiglie” palermitane famose per le guerre di mafia del passato, ma ormai è un’altra storia, quella che vivono i figli e i figli dei figli di chi ha fatto le stragi trent’anni fa. È sbagliato e antistorico ancorare queste persone a vicende che non sono le loro. Per questo imbastire le retate ha poco senso. Dovrebbe averne ricevuto lezione lo stesso procuratore Gratteri dopo l’infruttuosa pesca a strascico dei 200 arresti in un paesino di 2000 abitanti della Calabria, di cui 192 risultarono innocenti. E dopo l’ultima retata dell’inchiesta “Rinascita-Scott” con 140 suoi provvedimenti subito modificati, su 260 arrestati.

Non siamo più ai tempi di Falcone e del maxiprocesso. Perché è cambiato il nostro codice di procedura penale con il sistema accusatorio e la prova che si deve formare in aula. Ma anche perché sono cambiati i gruppi criminali. Non ha più nemmeno senso chiamarle ancora “associazioni”, benché sia ancora prevista la fattispecie nel codice. Se queste retate servissero davvero a sgominare la mafia, le strade di Milano dovrebbero essere cosparse di cadaveri. Invece sono desolatamente vuote. Per il virus, certo. Ma anche perché, per fortuna, la mafia non esiste più. E sarebbe meglio che la magistratura si attrezzasse a seguire il flusso dei soldi, come dice spesso il procuratore di Milano Francesco Greco (uno che si intende di economia e finanza), non con le retate ma con l’esame dei libri contabili.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.