A Napoli e in generale nel Sud dell’Italia, l’astronomia ha radici relativamente recenti. Dopo i fasti di una stagione particolarmente feconda per la cultura meridionale, a cavallo tra Cinque e Seicento, segnati da personaggi del livello dei filosofi calabresi Bernardino Telesio e Tommaso Campanella, del matematico siciliano Francesco Maurolico, del poliedrico vicano Giovanni Battista Della Porta, probabile inventore del telescopio, del napoletano Francesco Fontana, abile costruttore di strumenti e prolifico osservatore, e del nolano Giordano Bruno, che per primo concepì l’idea degli infiniti mondi, il Mezzogiorno conobbe l’inevitabile decadenza procurata dalla dominazione spagnola. E così come l’onda lunga della storia aveva fatto traghettare indenne una grande tradizione di sapere attraverso un primo secolo di degrado politico, economico e sociale, quando il Sud riacquistò l’indipendenza, sotto Carlo III, ci vollero molti decenni prima che il fuoco che ancora covava sotto la cenere tornasse ad ardere, alimentato dal desiderio di grandezza dei Borbone e poi dei re francesi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.

Il risultato di questo new deal fu l’edificazione di un moderno e bellissimo osservatorio a Miradois, sulla collina di Capodimonte, a poca distanza dall’omonima reggia: uno stabilimento scientifico unico nel panorama italiano caratterizzato da specole ricavate riattando edifici preesistenti. Era il coronamento del sogno testardamente inseguito dal beneventano Giuseppe Cassella: un sogno passato attraverso esperienze fallimentari, come quella di creare un punto d’osservazione del cielo nell’attuale museo archeologico nazionale (dell’iniziativa resta una prestigiosa traccia nel Salone della Meridiana, dove il bell’orologio solare lungo 27 metri fa sfoggio di 12 formelle dipinte coi segni zodiacali probabilmente per mano di Wilhelm Tischbein, allora direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli). Messa a rischio dalla rovinosa caduta di Murat mentre l’opera era a metà del guado, la specola di Capodimonte venne completata nel 1819 per volontà di Ferdinando I della Due Sicilie, il “re nasone” rimesso in Sella dal Congresso di Vienna, e per opera di Giuseppe Piazzi, il direttore dell’Osservatorio di Palermo che nell’anno 1800 era diventato celebre con la scoperta del pianetino Cerere, un corpo celeste minore tra Marte e Giove che la comunità internazionale aveva vanamente cominciato a cercare e che il roccioso sacerdote teatino aveva snidato grazie a una meticolosa esplorazione del cielo, condotta con la forza di un uomo di fede.

Obbedendo obtorto collo all’ordine del re, Piazzi lasciò la sua amata Palermo e venne a Napoli dove, presa in mano la situazione, portò a termine il progetto eliminando ogni sorta di orpelli e badando al sodo. Scienziato universalmente noto, Don Giuseppe morì a Napoli dove le sue spoglie mortali riposano nella cripta della Basilica di San Gaetano da Thiene, fondatore dell’Ordine teatino, sottostante San Paolo Maggiore, in via dei Tribunali. Aveva fatto in tempo a consegnare al primo direttore, il milanese Carlo Brioschi, un piccolo gioiello che, oltre alle pregevoli opere edili e agli strumenti di buona qualità, poteva vantare giovani astronomi di indubbio valore. Tra loro Antonio Nobile e soprattutto Ernesto Capocci. Ernesto era figlio d’arte: suo zio, prematuramente scomparso, era stato il direttore in pectore della specola di Capodimonte designato da Murat. Rampollo di buona famiglia, aveva avuto un’eccellente educazione che ne aveva fatto insieme uno scienziato e un letterato. Successore di Brioschi alla direzione dell’Istituto, si mise presto in evidenza per la modernità della sua visione anche politica.

Effettuò un lungo viaggio formativo all’estero, principalmente in Francia, durante il quale pubblicò anche un pregevole romanzo storico e conobbe il fisico parmense Macedonio Melloni del quale avrebbe poi sponsorizzato la chiamata a Napoli come direttore dell’erigendo Osservatorio vesuviano, nonostante Melloni fosse un rivoluzionario. In fondo anche Capocci lo era. Partecipò infatti, insieme a quattro dei suoi figli, ai moti del ’48, per cui venne epurato dal Borbone. Rimesso in sella da Garibaldi, chiuse la sua straordinaria esistenza come senatore del nuovo regno d’Italia. Gli successe alla guida dell’Osservatorio l’abruzzese Annibale de Gasparis, che la storia della scienza ricorda per essere stato il più fortunato tra i cacciatori di pianetini proprio agli albori di questa caccia. Nei primi decenni del Novecento, per l’Osservatorio di Capodimonte inizio una fase di lento declino. Invece che puntare sull’astrofisica, la nuova scienza nata dalla fusione tra fisica e astronomia, i napoletani si concentrarono sulla geodesia, perdendo così il contatto col fronte della ricerca.

La guerra fece il resto. Nell’ultimo mezzo secolo, però, la specola nata sulla collana di Miradois ha progressivamente recuperato terreno, crescendo in dimensioni e segnalandosi per una notevole vitalità scientifica e tecnologica. Insieme all’Università Federico II, alla Parthenope e alla Vanvitelli, dove si sono costituiti gruppi di astrofisici nell’ambito dei dipartimenti di fisica, oggi può vantare un invidiabile record di successi, dalla costruzione del telescopio a grande campo VST che opera sulle Ande del Cile, alla partecipazione a ricerche di punta come la rivelazione delle onde gravitazionali e l’imaging dei buchi neri supermassicci. E non è raro, girando il mondo, trovare brillanti astronomi anche in posizioni apicali che si sono formati all’ombra del Vesuvio.

Massimo Capaccioli