Finché non ci saranno (e speriamo non ci siano mai) dieci morti a Roma, alcuni non capiranno mai. Sono quelli che non hanno voluto vedere le lacrime che rigavano il viso stanco di quel medico di Bergamo che sussurrava: «In una settimana il virus ha azzerato un’intera generazione della mia città». Sono quelli che dicono che il problema principale è sempre un altro. Che bisogna pensare alla crisi economica che verrà, prima di chiudere le città per impedire il contagio. O anche per esempio – per stare su un altro argomento d’attualità – che bisogna punire i detenuti che hanno inscenato proteste, prima di occuparci del sovraffollamento delle carceri che potrebbe portare anche lì la contaminazione da virus.

Tutti argomenti fuori luogo. Perché dovrebbe essere chiaro a tutti che, mentre la casa brucia, si deve spegnere l’incendio, prima di consultare l’architetto per sapere come ricostruirla. In questo momento servono medici, infermieri, respiratori e posti letto in terapia intensiva. E aiuti che non scarichino sugli operai il salvataggio dell’economia. Porsi il problema del “dopo”, mentre intere generazioni corrono il rischio di non esserci neppure, “dopo”, è un esercizio intellettuale tipico di chi non è mai stato a Bergamo, di chi si è coperto gli occhi davanti alle lacrime di quel medico. Di chi non ha conosciuto il clima da guerra in cui gli obitori non hanno più posto per i cadaveri. O di chi non è mai stato in un carcere e non sa che cosa significhi, dopo aver perso la libertà (che dovrebbe essere l’unica pena) rischiare di perdere anche la salute e forse la vita a causa del sovraffollamento, cioè del frutto del pessimo funzionamento della giustizia.

Essere liberali vuol dire avere a cuore la società dei diritti e garantirla con l’applicazione di regole certe, poche e chiare. In questo momento stiamo vivendo più confusione che diritti, perché non siamo in grado di garantire quello alla vita. “Primum vivere” significa prima di tutto che ciascuno di noi assuma la responsabilità di un bene individuale e collettivo che si chiama “vita”. E, se la guerra si affronta con la chiamata alle armi, la strada è quella indicata da chi vive il problema sul posto e che sa ascoltare gli specialisti, i virologi.

Cosa che ha fatto, e che ripete ogni giorno, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, in accordo con i dodici sindaci (di diverse appartenenze politiche) di capoluogo e i tre sindacati confederali: fermare tutto, hanno detto. Fermare le città, fermare il commercio e la produzione. Lombardia come Codogno. Italia come Codogno. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, la città in questo momento più ferita, è alla disperazione, e agli imprenditori che lo chiamano spiega ogni giorno che se non fermiamo tutto adesso, perderemo tutto dopo. Del resto la saggezza popolare ha sempre detto che i più ricchi del cimitero sono comunque deceduti, e questo va sempre ricordato.

Certo, occorre che il governo mantenga gli impegni economici e finanziari che sta assumendo con una serie di provvedimenti amministrativi e anche, per le aziende della filiera alimentare che non può fermarsi, si mettano i dipendenti in condizioni sicure dal rischio di contagio. Ma le regole andrebbero applicate e non sta andando così. A Milano come a Roma la libertà di passeggiata è diventata occasione per attività sportive di gruppo, incontri collettivi di mamme e bambini e ragazzi abbracciati sui prati, come se niente fosse. Possibili persone asintomatiche e positive diventano così gli inconsapevoli “untori” di altri cittadini.

Nel capoluogo lombardo l’allarme lanciato da tanti è stato raccolto dal sindaco Sala, che ieri ha disposto la chiusura del Parco Sempione e di tutti quelli recintati da cancellate. Ma ce ne sono tanti altri, più piccoli e sparsi per la città. Il divieto deve essere più chiaro ed esplicito. E poi, che dire di lavanderie, profumerie, negozi di cellulari e affini, ferramenta e negozi di tanti altri tipi di merci che, pur nella desolazione della città deserte, sono autorizzati a rimanere aperti?

Non parliamo poi delle fabbriche, già percorse da scioperi di chi non vuole sempre sulle proprie spalle il costo della crisi, cui si aggiunge oggi anche il concreto rischio di un contagio, in assenza di misure di sicurezza non ancora messe in campo. Tutti prezzi da pagare sull’altare di un governo confuso e poco coraggioso. Neppure l’ultimo decreto, troppo condizionato forse dalle associazioni degli industriali, è sufficiente. Chiudere tutto, vuol dire tutto. Se vogliamo salvarci. Perché il contagio arriverà ovunque nel mondo, è sicuro. Avere il coraggio di essere impopolari oggi, avrebbe detto Marco Pannella, per non essere antipopolari domani.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.