Il mondo si sta fermando ed è costretto a ripensare al proprio modello di sviluppo e a tutte quelle scelte che lo hanno condotto alla situazione attuale rendendo evidente la fragilità che si nascondeva dietro una presunta onnipotenza di una globalizzazione che non ammetteva critiche. In realtà, già a partire dal 2008, quel modello di sviluppo aveva mostrato tutti i propri limiti con le pesanti conseguenze economiche e sociali tutt’altro che superate. Ma il dramma di questi giorni si inserisce in un’ampia riflessione che va avanti, più o meno sottotraccia, da qualche anno e che rappresenta un’utile bussola: quella della sostenibilità ambientale e sociale.

Quasi un’azienda italiana su tre, tra il 2015 e il 2019, ha investito in prodotti e tecnologie ambientalmente “sostenibili” con l’obiettivo di contribuire a ridurre gli effetti nefasti di comportamenti “poco corretti” sull’ecosistema, risparmiare energia e contenere le emissioni di anidrite carbonica. La percentuale, se si fa riferimento al manifatturiero, sale al 40%. L’evoluzione importante che si è registrata in Italia negli ultimi dieci anni verso l’economia verde è in linea con il mercato degli investimenti sostenibili che ha superato, nel mondo, 30 trilioni di dollari (dati Gsia, la Global Sustainable Investment Alliance) con una crescita, a inizio 2019, del 34% rispetto al 2016 quando gli investimenti socialmente responsabili ammontavano a 22,9 trilioni di dollari.

Si tratta di prodotti Esg, Enviromental, Social and Governance, investimenti, cioè, che rispondono a determinati criteri relativi o all’impatto ambientale (cambiamenti climatici, emissioni di CO2, deforestazione, inquinamento dell’aria, dell’acqua, mare e falde acquifere) o a quello sociale (diritti umani, standard lavorativi, politiche di genere) o alle governance delle aziende e di socially responsible investing che prevedono l’esclusione dal portafoglio di determinati settori sulla base di principi etici.

Fino a qualche anno fa la sostenibilità era di pertinenza soltanto di chi, nelle banche e nelle società di investimento, si occupava di strategie di comunicazione con il compito di costruire un’immagine positiva. Oggi non è più così. Valutare l’impatto ambientale e sociale, misurare la sostenibilità degli investimenti è frutto dalla consapevolezza che l’impact investing può apportare benefici concreti non solo alla propria attività imprenditoriale ma anche a tutto ciò che la circonda, contribuendo così a favorire la crescita di un intero sistema e alimentando nuove opportunità. Come è evidente sempre più numerose saranno le possibilità e le sfide che si svilupperanno su questo terreno.

Le banche del Credito popolare sono pronte a raccogliere queste sfide. Nel 2019 esse hanno sostenuto il no-profit e il Terzo Settore erogando finanziamenti per complessivi 3 miliardi di euro (+ 3% rispetto all’anno precedente). Il credito al Terzo Settore ammonta al 30% dei finanziamenti dell’intero sistema bancario. Il sostegno al no-profit, elemento di sostenibilità sociale, è stato di fatto un elemento essenziale nel tentativo di favorire una ripresa delle attività produttive e per generare sviluppo e sostenibilità alle comunità e ai territori.

È servito, nella crisi iniziata del 2008, ad arginare gli effetti recessivi del ciclo economico rafforzando il legame tra Popolari e Terzo Settore, un necessario e utile atto di resilienza che ha permesso la sopravvivenza di tante realtà produttive. Oggi, alla luce del dramma in corso, quello stesso legame con le famiglie, con le piccole e medie imprese, con intere comunità che rischiano di essere escluse dall’accesso al credito in un sistema monolitico, diventa un modello per il futuro del sistema finanziario e per quello economico. I fattori costitutivi e identitari della prossimità delle Banche popolari le rendono soggetti insostituibili per ogni “politica sulla sostenibilità”, soprattutto quando il Coronavirus sarà sconfitto e sarà necessario ricostruire un “nuovo mondo”.