L'intervento
La rotta della violenza, la via pericolosa dei profughi che sognano un posto sicuro in Europa
I Balcani sono vicini ma la rotta balcanica è lontana. I Balcani sono quello straordinario crogiolo di storie complesse, lingue, religioni e culture che gli italiani conoscono per le loro ferie; la rotta balcanica è invece quella lunga via di fuga che dai confini greco-turchi arriva fino a Trieste. Una rotta lungo la quale transita parte rilevante dei richiedenti asilo che fuggono da conflitti e persecuzioni del medio oriente e cercano di arrivare in Europa: innanzitutto Siria, Afghanistan, Iraq, Iran. La rotta dei rifugiati per eccellenza. Ben lontano da quanto molti potrebbero pensare, si tratta di una via di fuga estremamente pericolosa, fatta da attraversamenti di molti paesi, sia dell’Unione Europea che esterni all’Unione, di respingimenti collettivi, di violenze, anche efferate, da parte delle diverse polizie, di campi di accoglienza inesistenti o, ove esistenti, degradati nonostante siano gestiti con fondi europei.
Tutti i rapporti internazionali, da Amnesty International agli altri enti meno noti, e tutte le inchieste giornalistiche sono concordi: la rotta balcanica è la rotta della violenza; una violenza del tutto diversa, per modalità e attori, rispetto alla via del mare, ma che avvolge i migranti da ogni lato e in ogni momento. Una violenza che non avviene in un “altrove” lontano ed esotico nel quale riporre il nostro sdegno, ma dentro l’Europa e persino dentro l’Unione Europea nella quale dovrebbero vigere i regolamenti e le direttive sull’accesso al diritto all’asilo, sulle condizioni di accoglienza, sui diritti socio-sanitari etc. E dove la polizia dovrebbe agire nella legalità.
Sullo stato della democrazia illiberale dell’Ungheria, sul suo muro che corre lungo tutto il confine della Serbia e sui suoi centri di detenzione per migranti poco ancora ci sarebbe da dire se non che, dopo essersi un po’ scomposta (ma non troppo) in dichiarazioni di condanna, l’Unione Europea ha lasciato fare i magiari. I rapporti sui “push-back”, ovvero sui respingimenti attuati in Grecia e in Bulgaria non sono mai stati smentiti al netto di qualche inconsistente dichiarazione ufficiale di circostanza, così come sono ormai migliaia le pagine che documentano le efferate violenze e le torture perpetrate dalla polizia croata (polizia dell’Unione) e dalle forze speciali lungo il confine con la Bosnia, cantone di Bihac: persone picchiate selvaggiamente, derubate di tutto, lasciate nude nella neve d’inverno e costrette a rientrare come possono in Bosnia dove li attende il nulla se non cercare, appena possibile, di rifare il “game” ovvero il crudele gioco del viaggio verso l’Europa (secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati gli ingressi registrati in Bosnia sarebbero stati 24.067 nel 2018 e 29.196 nel 2019).
I migranti ci proveranno cinque, dieci, venti volte ad attraversare la rotta per arrivare in Europa, ignari del fatto che in Europa, in teoria, ci sono già. Non si vedono, in questa brutale storia, provvedimenti di respingimento alla frontiera esterna dell’Unione adottati, notificati ed attuati in conformità alle procedure del Codice frontiere Schengen. Al contrario, tutto deve avvenire fuori dalla legalità per non lasciare traccia. «Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?», è il grido di un profugo afgano riportato nel dossier che la nuova rete “Rivolti ai Balcani” presenterà oggi, 27 giugno, a Milano (ore 11, chiostro della parrocchia S.Maria del Carmine). La rete comprende almeno 36 associazioni italiane (con adesioni in crescita) tra cui Amnesty International, ASGI, ACLI-IPSIA, ICS e molti gruppi di volontari che percorrono le strade dei Balcani con aiuti umanitari.
Il dossier, che è anticipazione di un’ampia prossima pubblicazione, è un’analisi ragionata delle principali fonti internazionali, spesso non disponibili in italiano, e vuole di richiamare l’attenzione dell’Italia e delle sue istituzioni su ciò che sta avvenendo non dall’altra parte del mondo ma alle porte di casa nostra, a tre ore di viaggio in automobile da Trieste. Trieste, dunque: per anni linea di approdo e “porto sicuro” per i rifugiati della rotta balcanica. Un luogo dove avere accoglienza e toccare finalmente l’esistenza dello stato di diritto; sia per chi vi restava sia per chi vi si transitava soltanto. Dalla metà di maggio dell’anno della pandemia si verifica un brusco cambio di scenario: iniziano, placidamente annunciate, le cosiddette “riammissioni informali” dei migranti in Slovenia, giustificate, si afferma, sulla base della rinascenza di un accordo risalente addirittura all’anno 1997, altra epoca storica ma fa niente; in politica non si butta via niente.
Si usano però ora nuove parole, leggere: riammissione invece di respingimento, ritorni “informali” invece di nessun provvedimento di respingimento. Ma i richiedenti asilo non c’entrano, vero? Non si applicano solo le direttive UE? E che fine ha fatto il famoso Regolamento Dublino? In una lettera aperta inviata da ASGI il 5 giugno al Governo italiano, che finora tace, si chiedono chiarimenti su ciò che appaiono a tutti gli effetti respingimenti collettivi proibiti dal diritto interno ed internazionale. E soprattutto respingimenti a catena: dall’Italia si viene consegnati alla polizia slovena che, parimenti senza notificare alcun provvedimento, corre il più veloce possibile lungo il piccolo paese e arriva al confine croato; nuovo veloce passaggio di polizia, nuova assenza di ogni documento.
Da lì, nuova ultima corsa al confine bosniaco ovvero nelle sue vicinanze nei boschi e nei sentieri di campagna. Nessuna consegna stavolta alla polizia bosniaca: il confine verrà ora attraversato a piedi dai migranti a suon di botte. I migranti saranno dunque finalmente di nuovo fuori dall’Unione Europa dove, almeno per un po’. La rotta della violenza funziona così; e ora in questo gioco ci siamo anche noi.
© Riproduzione riservata