Trumpeide
Anche un po' Trump Tower
La soluzione trumpiana per Gaza: farne un Grand Hotel a 5 stelle. Un po’ Montecarlo, un po’ Singapore. Il piano spazzapalestinesi

Soltanto a lui poteva venire in mente: spostare i due milioni di palestinesi che la abitano dal 1994 e trasformarla in una ricca Riviera del Mediterraneo, non importa che ne pensi Hamas e nemmeno Netanyahu. Questa è dunque la soluzione trumpiana per Gaza: una costa dorata americana con un gigantesco business, stellari profitti e opulenti salari per una nuova età dell’oro, qualcosa che si ispiri un po’a Montecarlo e un po’ a Singapore. Non si tratta di una boutade: è una sua vecchia idea di Trump e adesso l’ha resa pubblica. È fattibile? Che Hamas si faccia da parte sembra impossibile, ma sia Hamas che i palestinesi a Gaza sono una novità relativamente recente: con i giornalisti di un tempo lontano condivido un ricordo che poi è sgusciato via dalla memoria.
Il mio viaggio a Gaza
Era il primo luglio del 1994 quando il primo ministro israeliano Isaac Rabin consegnò ufficialmente fra sventolar di bandiere e rullo di tamburi, le chiavi di Gaza al presidente palestinese Yasser Arafat. Ero un giornalista della Stampa e il vicedirettore Gad Lerner mi svegliò festosamente: “Corri a Gaza! Oggi è il più grande giorno del Medio Oriente!”. Partii, ma ignoravo che per mettere piedi sulla striscia occorresse il visto palestinese perché Gaza era già nelle mani dell’Olp e si vedevano centinaia di bandiere e soldati palestinesi. “No visa?”. No, dissi, non sapevo che occorresse. Fui chiuso in una capanna con un uomo vecchissimo dalla barba saggia e poco dopo fui ammesso sul luogo della cerimonia in un’atmosfera paradisiaca profumata di fiori e vino passito. Gli israeliani erano discreti, nessuna uniforme benché Gaza fosse un ex territorio egiziano catturato da Israele nel 1974 alla fine della guerra del Kippur e trasformata in un paradiso agricolo con un impianto che usava acqua dissalata dal mare per inumidire centinaia di serre di fiori tropicali destinati a Europa, America e Asia. Le serre facevano parte della dote con cui Israele consegnava Gaza secondo gli accordi di Oslo siglati un anno prima dall’americano Bill Clinton, Rabin e Arafat. Chiunque abbia visto la Gaza di allora non può aver dubbi su cosa possa diventare quella striscia di deserto coltivabile, i pittoreschi villaggi e ristoranti sul mare. Non occorre molta fantasia per immaginare la rinascita possibile.
Un tempo lontano
Ma quel tempo è lontano: dopo quel primo luglio del ’94, Hamas assassinò tutti i palestinesi dell’Olp e cominciò a sparare razzi su Israele aprendo la guerra che dura fino ai nostri giorni. Ma lo spudorato coraggio di Trump va oltre l’idea di riportare a Gaza alla sua dimensione naturale di nuovo Eden. Il presidente americano non vuole soltanto fioriere ma pretende che se ne vadano tutti, israeliani e palestinesi compresi, e che i palestinesi vengano accolti dalla Giordania e dagli altri paesi arabi amici (e una diplomazia in questo senso è già in fase avanzata) e che a Gaza arrivino stuoli di ingegneri ditte americane che passino al setaccio quella terra martoriata mondandola di ogni ordigno, scheggia e memoria di morte, per portarla alla dimensione paesaggistica e industriale di perla del Mediterraneo sotto controllo e diciamo anzi sotto occupazione americana.
L’idea trumpiana
A chi gli ha chiesto se prevedesse l’impiego di truppe armate Donald Trump è apparso stupito: “Non vedo perché: solo se fosse necessario”, ha detto. Il piano fa parte integrante della grande novità che il genocidio del 7 ottobre 2023 aveva interrotto: cioè l’inizio dei cantieri dei “Piani di Abramo” con l’Arabia Saudita, potenza emergente che spera di assumere la totale leadership mediterranea in opposizione a Teheran e al mondo sciita.
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