Benjamin Netanyahu arriva negli Stati Uniti in uno scenario nuovo e diverso non solo perché ad accoglierlo sarà il neo-eletto Donald Trump anziché l’affaticato predecessore, ma perché molto è cambiato da alcuni mesi a questa parte. L’America congressuale che, l’estate scorsa, ascoltava il discorso del primo ministro israeliano mentre nelle strade e nelle università sventolavano le bandiere di Hamas ed erano bruciate quelle degli Stati Uniti e di Israele, oggi è predisposta a intervenire sulla situazione mediorientale in modo ben diverso; e appare meno intimidita dalla tracotanza delle manifestazioni anti-occidentali, anti-israeliane e anti-semite che avevano travolto l’inerzia, e a volte la compiacenza, dell’amministrazione democratica.

È cambiato, da allora, che non sono più di questo mondo tre grandi plenipotenziari del terrore rispettivamente palestinese e filo-iraniano, Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Hassan Nasrallah, personaggi che verosimilmente non sarebbero stati eliminati se avessero avuto libero corso le ipotesi di accordo di maggio, che ancora qualche giorno fa Joe Biden rivendicava di aver promosso senza tuttavia precisare che il contenuto di quelle bozze primaverili non era uguale, anzi, ai testi infine sottoscritti qualche settimana addietro. Era infatti diverso il numero degli ostaggi implicato, era diverso il trattamento del c.d. “Corridoio Philadephi” ed era diversa, soprattutto, la situazione in cui sarebbe intervenuto l’accordo per il cessate il fuoco.

Allora, mentre Bibi parlava al Congresso, la scena del conflitto non vedeva eliminati quei leader terroristi, non vedeva smantellate o in ogni caso ridimensionate le capacità offensive di Hezbollah, non vedeva disfatto il regime siriano, tutti sviluppi ancora una volta scarsamente prevedibili se si fosse trattato di seguire l’impostazione statunitense che per mesi e mesi – come si costringeva tardivamente e ambiguamente ad ammettere l’ex segretario di Stato Antony Blinken – finiva per tenere bordone a Hamas anziché contrastarla, e a far pressione più sullo Stato Ebraico che su quelli che volevano distruggerlo.

Occorre naturalmente fare attenzione, e non credere che l’avvicendamento a Washington D.C. implichi necessariamente l’approntamento di soluzioni più credibili ed efficaci. Avvisaglie di avventatezze e ambivalenze non sono mancate, a cominciare dalle sicure sollecitazioni, rivolte a Israele, affinché l’accordo per la liberazione degli ostaggi – un gravosissimo accordo, per Israele – intervenisse senza tante storie perché ciò avrebbe consentito a Donald Trump di svincolarsi dalle promesse elettorali sull’inferno che avrebbe scatenato (come? Contro chi?) se gli ostaggi non fossero stati liberati, tutti, entro il 20 gennaio.

Ma è indiscutibile che anche l’accidentato e precario accordo raggiunto ultimamente ha prodotto un cambiamento notevole, anche solo di impressione diffusa, a cominciare dalla questione cruciale relativa alla presenza di Hamas nelle prospettive di ricostruzione di Gaza e, in generale, nel governo della Striscia. Le scene di quei miliziani perfettamente uniformati e prestanti nel rilascio degli ostaggi israeliani, attorniati da turbe di civili in estasi e non propriamente smagriti, offrivano all’opinione pubblica la registrazione di immagini poco compatibili con la descrizione di una popolazione superstite al genocidio e alla carestia. Immagini che sbattevano in faccia a tutti quella questione cruciale, vale a dire la necessità – sinora riaffermata solo da Israele – che Hamas non possa e non debba avere nessuna parte in qualsiasi soluzione della vicenda di Gaza.

Si vedrà se, come e in quali termini questo profilo delicatissimo della faccenda sarà discusso nell’incontro delle prossime ore tra Netanyahu e Trump, ma è certo che il timore per il persistere ai confini di Israele di una potente organizzazione terroristica – capace di riarmarsi, riorganizzarsi e minacciare nuovamente lo Stato ebraico – non può essere più accantonato come l’ingiustificato cruccio di qualche ministro oltranzista. A preparare i colloqui tra i due si sono poste, poi, due non irrilevanti emergenze. Il Qatar – cui è stato consentito di ergersi a perenne co-mediatore nelle negoziazioni di questi mesi mentre svolgeva indisturbato il proprio ruolo di agente e sponsor di Hamas – ha condannato le dichiarazioni di Trump circa la possibile accoglienza dei palestinesi della Striscia da parte della Giordania e dell’Egitto.

Quest’ultimo, per parte propria, sta dimostrando non a parole, ma con movimenti di truppe e mezzi, quanto sia (in)disponibile anche solo all’ipotesi che quella soluzione possa discutersi. Non si tratta di dettagli, perché contribuiscono a chiarire quanto sia genuino l’interessamento del Paesi arabi alla sorte dei palestinesi, cari ai molti che non tengono affatto al diritto di autodeterminazione dei palestinesi stessi, ma all’utilità che essi garantiscono nel rimanere un problema per Israele.

La cosa certa, qualunque sia l’esito dell’incontro, è questa: che riprenda o no il conflitto, che cominci o no l’attuazione della seconda fase degli accordi – la quale prevede un ulteriore allentamento del presidio israeliano – nulla sarà risolto in modo appagante a Gaza senza l’esautoramento di chi la assedia imponendovi i propri scarponi, Hamas, e senza l’intervento di chi sino ad ora ha guardato da lontano, l’Arabia Saudita.