Lea Garofalo venne uccisa 12 anni fa dalla ‘ndrangheta calabrese: alla quale apparteneva per nascita e dalla quale voleva fuggire. Voleva salvare anche sua figlia. Per lo Stato non è una vittima di mafia perché al processo non venne applicata l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Alla sua storia, alla storia di questa madre e donna, è stato dedicato il film Lea, diretto dal regista Marco Tullio Giordana, e interpretato dall’attrice Vanessa Scalera (diventata ormai nota al grande pubblico per la fiction Rai Imma Tataranni).

Garofalo era cresciuta all’interno di una famiglia di affiliati alla ‘ndrangheta. Era nata a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, nel 1974. Orfana del padre. Con il compagno Carlo Cosco era andata giovanissima a Milano e a 17 anni aveva avuto una bambina. Lea aveva sviluppato una contrarietà spontanea e autentica alla criminalità, ai traffici e alle logiche che appartenevano anche alla sua famiglia. Per sottrarre, e in qualche maniera proteggerla, anche la figlia a quell’ambiente decise nel 2002 di denunciare la famiglia e il suo ex Cosco.

Quando aveva comunicato al compagno di voler lasciare la casa, in carcere – dove l’uomo era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Storia Infinita” – Cosco la aggredì violentemente: fu necessario l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Garofalo prima si trasferì a Bergamo, dove il fratello Floriano le lanciò un messaggio di avvertimento incendiandole l’automobile. A Petilia Policastro, dove aveva deciso di tornare, venne aggredita di nuovo dal fratello. E quindi decise di parlare. Fu ammessa subito al programma di protezione con la figlia e trasferita a Ascoli Piceno, Fabriano, Udine, Firenze e Boiano, vicino a Campobasso. Una vita stravolta. E che comunque non mollava: ci credeva in quella scelta Lea Garofalo.

Floriano venne ucciso, Carlo uscì di prigione e cercò l’ex compagna che nel 2006 venne espulsa dal programma di protezione perché non ritenuta una collaboratrice attendibile. Un primo tentativo di rapimento a Campobasso: a sventarlo Denise, che era in casa. A Massimo Sabotino erano stati promessi 25mila euro. All’ex compagno Garofalo chiese allora di contribuire al mantenimento della figlia. La donna venne quindi sequestrata a Milano dove l’uomo l’aveva invitata per parlare e risolvere la questione. L’avrebbe strangolata in un appartamento in Corso Sempione dopo averla picchiata.

Fu uccisa barbaramente, terribilmente. Il corpo – quello che ne rimaneva: 2.800 frammenti ossei e i resti di una collanina – distrutto e ritrovato il 24 novembre 2009 a San Fruttuoso, quartiere di Monza. Il cadavere venne dato alle fiamme insieme a 50 litri di acido e lasciato bruciare per quasi tre giorni, perché non ne rimanesse traccia. La figlia non credeva alla versione del padre: ovvero che la madre l’avesse abbandonata dopo aver preso i soldi. I carabinieri chiesero alla giovane di continuare a stare con il padre per raccogliere le prove. A tenerla sotto controllo, dietro ordine del padre, Carmine Venturino.

La sentenza del processo d’appello arriva nel maggio del 2013, come ricostruisce Libera, e conferma quattro dei sei ergastoli. Giuseppe Cosco fu assolto mentre a Carmine Venturino venne ridotta la pena, in virtù della sua collaborazione. Le condanne sono state tutte confermate dalla Corte di Cassazione nel dicembre del 2014. Denise che al processo parlò contro suo padre e da allora vive sotto protezione e nell’anonimato. Ai funerali, il 19 ottobre 2013, a Milano parteciparono centinaia di persone con la partecipazione di Don Ciotti e del sindaco Giuliano Pisapia. Garofalo è stata seppellita al Cimitero Monumentale di Milano. Il film è uscito nel 2015. Gli altri attori, oltre alla protagonista, sono Linda Caridi nei panni della figlia Denise, Alessio Praticò, Mauro Conte, Matilde Piana e Bruno Torrisi.

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Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.