La battaglia
La TV a colori non piaceva al Partito Comunista. La battaglia ideologica ed economica sulle innovazioni
Era il novembre del 1974, 50 anni fa – Terminata l’estate dei mondiali di calcio in Germania ovest, in una villa al km 22 della via Appia a Roma, nella frazione di Frattocchie, un piccolo gruppo di dirigenti del Partito Comunista ribadiva una scelta politica netta: la televisione a colori in Italia non ci sarebbe stata. La CGIL a sua volta affermava che “l’adozione della televisione a colori si muoveva in senso del tutto opposto alle esigenze del nostro Paese”.
La battaglia ideologica
L’introduzione della tv a colori in Italia rappresenterà una delle più incredibili battaglie ideologiche della storia recente del Paese. Questa disputa si sviluppò tra gli anni ‘60 e ‘70, in un contesto storico caratterizzato da tensioni sociali, politiche e culturali che riflettevano un’Italia in rapida trasformazione. Protagonista di questo dibattito fu un pezzo maggioritario della sinistra italiana che, per diversi anni, si oppose. Le motivazioni di questa posizione erano legate a una combinazione di ragioni economiche, ideologiche e sociali, che meritano di essere esplorate in dettaglio.
Negli anni ‘60 la RAI era il principale punto di riferimento per l’informazione e l’intrattenimento, e il bianco e nero dominava ancora lo schermo. L’introduzione della televisione a colori fu rimandata fino al 1977, ben oltre rispetto ad altri paesi occidentali per il dibattito politico e ideologico che accompagnava ogni innovazione tecnologica dell’epoca, e in cui il Partito Comunista Italiano svolse un ruolo determinante in questa opposizione.
Il problema economico
Uno dei principali argomenti utilizzati dalla sinistra per opporsi alla televisione a colori era di natura economica. L’Italia degli anni ‘60 e ‘70 era un paese attraversato da profonde disuguaglianze sociali. Per gran parte della popolazione, l’acquisto di un televisore rappresentava già un investimento significativo, e l’idea di doverne comprare uno nuovo, compatibile con il segnale a colori, era percepita come un ulteriore peso per le famiglie meno abbienti. Il PCI, il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa e altri esponenti della sinistra sostenevano che introdurre la televisione a colori avrebbe accentuato il divario sociale.
Un altro elemento fondamentale dell’opposizione della sinistra alla televisione a colori era legato a considerazioni di carattere strettamente ideologico. La sinistra dell’epoca vedeva la televisione come uno strumento di controllo sociale, attraverso il quale la classe dirigente e i grandi gruppi economici potevano influenzare le masse, diffondendo un modello di consumo e di cultura considerato alienante. La sinistra italiana espresse anche preoccupazioni legate agli aspetti tecnici e strategici dell’introduzione della televisione a colori. Si riteneva che la modernizzazione del sistema televisivo avrebbe richiesto investimenti ingenti, sia per aggiornare le infrastrutture della RAI sia per adattare le emittenti private che stavano iniziando a emergere. Questi costi sarebbero stati scaricati sui contribuenti e sui consumatori, senza garantire reali benefici per la società nel suo complesso.
Lo strumento culturale
L’opposizione della sinistra alla televisione a colori non era però priva di contraddizioni. Da un lato, il PCI e altri partiti della sinistra si opponevano, dall’altro molti intellettuali vicini a quegli stessi partiti sostenevano l’importanza di un’alfabetizzazione mediatica e di un uso consapevole della televisione come strumento culturale. Nonostante l’opposizione iniziale, l’introduzione della televisione a colori in Italia divenne inevitabile. Nel 1977, con l’approvazione del sistema PAL, il colore fece finalmente il suo ingresso sugli schermi italiani. Il compromesso politico che portò a questa decisione rifletteva l’equilibrio tra le diverse forze in campo.
Da un lato, la televisione a colori rappresentava una vittoria per i sostenitori del progresso tecnologico; dall’altro, il controllo della RAI da parte dello Stato e le normative restrittive sull’emittenza privata garantirono, almeno temporaneamente, che la transizione al colore avvenisse senza scardinare l’assetto mediatico esistente. L’opposizione a questa novità rifletteva una visione del mondo in cui il progresso tecnologico non era considerato un valore neutro, ma uno strumento che poteva essere utilizzato per consolidare o sovvertire le gerarchie sociali esistenti.
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