“È venuto il momento di costruire una società che non sia un immondezzaio”, disse Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari nel 1981. Dieci anni dopo, o poco più, furono le toghe di Mani Pulite a ramazzare. Vent’anni dopo, o poco più, ci pensarono le folle arrabbiate di Grillo. Onestà! fu il loro grido di battaglia.

“Un immondezzaio”, così il segretario del Partito comunista aveva definito la politica italiana. Ed effettivamente, nel 1981, il paese sembrava sempre più un caso eccezionale. Come una zattera alla deriva nel Mediterraneo, l’Italia si stava staccando dall’Occidente, da quel contesto geopolitico di cui era stata sorprendente protagonista all’indomani del fascismo, nella stagione di Einaudi e De Gasperi, del miracolo economico, del moplen, dell’americano Mike Bongiorno. Ricordi sbiaditi, ormai.

Negli anni Settanta, del resto, era tutto il beato Occidente atlantico ad affrontare trasformazioni difficili, lo shock petrolifero, la terza rivoluzione industriale, i costi eccessivi del welfare. E l’Occidente, tuttavia, aveva trovato nelle politiche liberiste la medicina. Negli Stati Uniti era arrivato Reagan. In Inghilterra, Thatcher. In Germania, Kohl. Governi forti che avevano scelto di affidare al mercato la selezione sociale e la misura della produttività. Ma in Italia la musica era molto diversa. Non c’era l’ombra di un governo forte, capace di rispondere alla crisi, e anzi il sistema dei partiti appariva in debito d’ossigeno. I tentativi della Dc di stabilizzare il quadro politico imbarcando la sinistra erano falliti. Era fallito il centrosinistra già nel 1969. Era fallito il compromesso storico dieci anni dopo. Si preparava la grande slavina, il ripudio della politica, lo tsunami populista. E fu Berlinguer ad accendere la miccia.

Nella lunga intervista che diede al direttore della Repubblica il 28 luglio del 1981, disse senza mezzi termini che la crisi del paese era una “questione morale”. Stava qui “il centro del problema italiano”. E ne individuò la causa prima – “l’origine dei malanni” – nella degenerazione dei partiti. I partiti, disse, “hanno pochi o vaghi programmi, zero sentimenti e passione civile”. I partiti “gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi”. I partiti “hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali, tutto è lottizzato”.

I partiti “non sono più organizzatori del popolo, sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’”. E, senza andare troppo per il sottile, li fece uno dopo l’altro, i nomi dei boss, Bisaglia e Gava, Andreotti e De Mita, Gaspari e Forlani. “Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora”, aggiunse. E voi, gli chiese allora Scalfari? Noi siamo diversi dai partiti, rispose, “il Pci non li ha seguiti in questa degenerazione”. E sì che avrebbe potuto, aggiunse orgogliosamente. “A noi hanno fatto ponti d’oro, perché abbandonassimo questa posizione d’intransigenza morale e politica. Ai tempi della solidarietà nazionale ci hanno scongiurato di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. E ce ne siamo andati sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere poteva significare tener bordone alle malefatte altrui”. Erano parole a dir poco azzardate per un partito che aveva alle spalle anni e anni di governo nelle regioni e nei comuni “rossi”, che nelle commissioni parlamentari aveva votato infinite volte insieme con la maggioranza democristiana, che era stato tradizionalmente il campione di un’egemonia culturale assai generosa di prospettive pubbliche per i chierici “di area”.

Ma soprattutto era una lama che, consapevolmente, veniva affondata nel burro di un’opinione pubblica sempre più perplessa di fronte al proprio ceto politico e alla stessa politica. Il paese era sull’orlo della recessione, preoccupato da un’inflazione a due cifre, con una produttività stagnante, alle prese con la nascita del sistema monetario europeo. I ceti medi apparivano insofferenti della forza accumulata nel tempo dai sindacati, come mostrò clamorosamente la “marcia dei quarantamila”. E la questione settentrionale era dietro l’angolo, con il suo ruvido rifiuto dello Stato fiscale. Si trattava di nodi strutturali gravi, che giornali e tv intrecciavano con una cronaca fatta apposta per disorientare la gente comune. La stagione del terrorismo era stata sfiancante e non finiva mai, il rapimento di Moro era apparso come l’ennesima défaillance dello Stato, gli scandali occupavano i titoli di apertura, il caso Lockheed mise in croce i leader Dc, il ritrovamento degli elenchi della P2 delegittimò un altro pezzo di classe dirigente. L’Italia soffriva a pieno titolo, ovviamente, l’acuta crisi di crescenza che stava mettendo in forse la stessa egemonia occidentale, ma seguiva una propria strada.

Il problema non era il sistema economico-sociale, era la moralità pubblica. L’Italia non era un paese avviato al declino, era un paese corrotto. E la corruzione costituiva il grande vizio dei partiti, Pci escluso. La “questione morale”, posta da Berlinguer in cima all’agenda politica, finiva per essere un potente diversivo rispetto ai nodi strutturali che sarebbe stato urgente sciogliere. Berlinguer virava profondamente rispetto alla tradizionale strategia togliattiana di inserimento negli istituti parlamentari e virava, non di meno, rispetto alla stessa proposta del “compromesso storico”. La sua appariva come una scelta aventiniana.

I comunisti si arroccavano nella propria declamata “diversità morale” e aspettavano sulla sponda del fiume le spoglie dei partiti corrotti. Una visione indubbiamente sagace, perchè coglieva la progressiva disaffezione dell’elettorato nei confronti della politica e dello Stato. Ma anche temeraria, se non cinica. Quell’intervista, nell’Italia scontenta e diseguale degli anni Ottanta, finiva per essere benzina sul fuoco. Assestava un colpo alla Repubblica dei partiti. Ne prevedeva il collasso, assecondandolo. Di quell’ormai claudicante sistema politico, gli stessi comunisti sembrarono poi essere gli eredi annunciati, allorquando i partiti usciti indenni dal lavacro delle procure vollero raccogliere il frutto della propria purezza.

Ma fu un’illusione, l’illusione di Occhetto. Le monetine del Raphael pugnalarono Craxi, ma nulla poterono contro una destra capace di presentarsi come la nemesi del “teatrino della politica”. E tanto meno la berlingueriana “diversità” la ebbe vinta, quando le masse antipolitiche si misero in proprio, fondando il movimento degli onesti e succhiando molto sangue proprio dalle vene della sinistra. Sicché agli eredi del Pci, per ironia della sorte, non restò che ingranare una retromarcia precipitosa, diventando – e, in parte, continuando ad essere – il partito dell’establishment. Non rifiutarono più, se mai l’avessero fatto in passato, le “poltrone” delle quali aveva parlato con disprezzo Berlinguer. E naturalmente finirono anch’essi trafitti dalla “questione morale”.