A 14 mesi dall’arresto e a sei dalla morte, continuano ad emergere nuovi dettagli sulla latitanza di Matteo Messina Denaro, il superboss stragista di Cosa Nostra stanato dopo ben 30 anni di latitanza all’esterno di un clinica di Palermo dove si recava per le chemio a causa di un cancro che gli ha poi stroncato la vita durante i mesi successivi di detenzione.

Oggi, mercoledì 27 marzo, un nuovo blitz ha portato all’arresto di tre presunti fiancheggiatori del boss di Castelvetrano (Trapani) ma ha fatto emergere soprattutto una costante di questi decenni: la totale omertà. Omertà – denuncia la procura di Palermo guidata da Maurizio de Lucia – che “avvolge come una nebbia fittissima tutto ciò che è esistito intorno alla sua figura, ai suoi contatti, ai suoi spostamenti ed alle relazioni che ha intrecciato nei lunghi anni di clandestinità”. Lo stesso Messina Denaro, in un interrogatorio prima di morire, disse ai pm: “Mi avete preso per la malattia. A Campobello dovete arrestare 3mila persone…”

La latitanza tra la sua gente

In sostanza Messina Denaro ha vissuto buona parte della sua latitanza (se non tutta) a casa sua, ovvero in quei territori tra Trapani e Palermo che conosceva bene e dove poteva contare su una fitta rete di amicizie e fiancheggiatori che hanno messo a sua disposizione “documenti, auto e moto, esami clinici e contatti nel mondo sanitario“. Poi a metà maggio 2023 l’arresto dopo 30 anni di ricerche, con il superboss ormai debilitato dal tumore al colon retto.

I pm denunciano – così come riporta l’Ansa – “l’omertà trasversale che di fatto, allo stato, ha precluso agli inquirenti di avere spontanee notizie anche all’apparenza insignificanti: nessun medico, operatore sanitario o anche semplice impiegato di segreteria che abbia avuto contatti con Messina Denaro Matteo (alias Bonafede Andrea), ha ritenuto di proporsi volontariamente per riferire ai magistrati o alla polizia giudiziaria di essersi occupato, a qualsiasi titolo, del latitante o comunque rivelare quanto appreso direttamente, o anche solo indirettamente, sulle cure prestate all’importante capo mafia”.

Messina Denaro, arrestati architetto e radiologo: le accuse

Gli arresti delle scorse ore effettuati dai carabinieri del Ros riguardano l’architetto Massimo Gentile e il tecnico radiologo dell’ospedale di Mazara del Vallo Cosimo Leone, accusati di associazione mafiosa.  Concorso esterno in associazione mafiosa è invece l’accusa contestata a Leonardo Gulotta. Dalla cattura del boss, avvenuta il 16 gennaio del 2023 a Palermo, sono finite in manette 14 persone accusate di averlo aiutato. Quattro sono già state condannate in primo grado.

L’architetto Gentile, originario di Campobello di Mazara (dove ha vissuto prima della cattura Messina Denaro), vive a Limbiate, in provincia di Monza, e ricopre un incarico amministrativo al Comune. L’indagato è parente di Salvatore Gentile, killer ergastolano, marito dell’amante storica di Messina Denaro Laura Bonafede. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tra il 2007 e il 2017, l’architetto avrebbe ceduto più volte la sua identità al capomafia ricercato, consentendogli così di acquistare una Fiat 500 e una moto Bmw, di stipulare l’assicurazione sui due mezzi, di compiere operazioni bancarie, “insomma – scrivono i magistrati – di vivere e muoversi nel suo territorio come un cittadino qualunque e con un apparentemente regolare documento di riconoscimento”.

Messina Denaro “cittadino qualunque”

Al tecnico radiologo Cosimo Leone, cognato di Gentile, la procura di Palermo contesta di aver garantito al boss latitante, a novembre del 2020, di fare in sicurezza una Tac al torace e all’addome, di avergli consegnato un cellulare riservato durante il ricovero all’ospedale di Mazara del Vallo, nei giorni in cui il capomafia venne operato di tumore al colon e di avergli fatto recapitare dopo le dimissioni il cd della tac da mostrare agli specialisti che lo avevano in cura. Gulotta, infine, è accusato di aver messo a disposizione di Messina Denaro, tra il 2007 e il 2017, la propria utenza telefonica per poter ricevere comunicazioni dal rivenditore della Fiat 500 acquistata sotto falso nome e dalle agenzie assicurative presso le quali erano state stipulate le polizze per la macchina e la moto comprate con l’identità di Gentile.

Il pizzino e l’avvio dell’inchiesta

Tutto nasce da un appunto trovato in casa di Messina Denaro a Campobello di Mazara. C’era scritto “10mila + 500 per Margot”. Margot – così come poi emerso attraverso altri incroci investigativi – era lo pseudonimo che Messina Denaro usava per indicare le sue auto nei pizzini o nei documenti. La caccia al veicolo ha portato i carabinieri a una concessionaria di Palermo dove è stata trovata la pratica d’acquisto della Fiat 500 con i documenti consegnati dall’acquirente: la fotocopia della carta d’identità era intestata a Gentile su cui era stata incollata la foto di Messina Denaro, prova che il boss era andato di persona ad acquistare la Fiat. Come recapito telefonico c’era un numero intestato invece a Gulotta.

Per l’acquisito il capomafia ha versato 1.000 euro in contanti e 9.000 attraverso un assegno circolare emesso dalla filiale di Palermo dell’Unicredit di Corso Calatafimi. Allo sportello, per ottenere l’assegno, ha esibito il falso documento di Gentile, versato euro 9.000 cash e dichiarato che il denaro era frutto della propria attività di commerciante di vestiti. Come recapito telefonico per le comunicazioni ancora una volta il boss ha lasciato il cellulare di Gulotta “una persona fidatissima e perfettamente informata di ciò che stava accadendo, poiché altrimenti chiunque altro ignaro della compravendita avrebbe, al primo contatto telefonico, allarmato la concessionaria e probabilmente messo a serio rischio la identificazione del latitante”, scrivono i pm. L’auto, per tutto il periodo di utilizzo – tre anni – è stata assicurata a nome di Gentile e in almeno un anno le polizze, come hanno mostrato le comparazioni grafiche, hanno portato la firma di Messina Denaro.

Redazione

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