La guerra nella Striscia di Gaza è strategia militare e complessi giochi diplomatici. Ma alle radici del conflitto, c’è un trauma impossibile da cancellare: il 7 ottobre. Un assalto al cuore di Israele che ha cambiato, forse per sempre, il paradigma dei rapporti tra israeliani e palestinesi. C’è un prima e un dopo quel giorno. Come ci sarà un prima e un dopo questa guerra. Ma se le immagini del conflitto ci riportano a una cronaca fatta di raid e di una devastante crisi umanitaria, è solo tornando a quel giorno di ottobre che si comprendono tre chiavi alla radice dell’operazione militare israeliana.

Il primo: lo choc di un Paese che ha visto morire persone inermi trucidate da bande armate che non hanno dimostrato alcuna pietà nei riguardi di chiunque si trovava davanti ai loro occhi. Il secondo: la necessità del governo di rimediare all’enorme buco nella sicurezza e di recuperare gli ostaggi rapiti, che vivono da 170 giorni un incubo forse impossibile da comprendere per chiunque. Il terzo: il bisogno per lo Stato ebraico di fare in modo che nella Striscia di Gaza, Hamas non esista più, né a livello militare né a livello politico. E che quella regione non rappresenti più una minaccia per Israele.

Le immagini e i video di quelle ore di terrore non servono a fare da contrappeso alle privazioni che i civili subiscono a causa della guerra. Un tema diventato necessariamente attuale e motivo di dibattito all’interno delle cancellerie e delle opinioni pubbliche occidentali. Fare paragoni nel dolore risulta un’opera inutile, se non anche controproducente, specialmente in questo caso. Ma osservare le scene di quelle interminabili ore di terrore aiutano a tornare alla radice del problema, e a far capire perché per Israele si tratta di una ferita difficilmente rimarginabile. Di qui la campagna di sensibilizzazione del suo governo ma anche di associazioni come “7 ottobre” che cercano di ricordare che quel trauma non è stato ancora metabolizzato del tutto dallo Stato ebraico. Inondato dal martellante ritmo della cronaca, Israele fatica a dimenticare cosa è accaduto.

Non può dimenticare i miliziani di Hamas che facevano irruzione all’interno dei kibbutz sparando su chiunque incontravano per strada. Non può dimenticare le persone uccise a bruciapelo per strada, le urla disperate dei bambini che avevano appena visto il proprio padre freddato da una granata dentro un rifugio. Per ore, giorni, settimane, l’opinione pubblica israeliana ha visto e rivisto i video dei ragazzi del Nova party mentre cercavano di fuggire di fronte a una furia cieca, con i giovani uccisi a colpiti di fucile mentre cercavano disperatamente di scappare tra i campi. Così come è impossibile per il governo fare a meno di ricordare la macabra scena dei cadaveri carbonizzati di donne, uomini, anziani, o bambini, o i video dei terroristi mentre tentavano di decapitare le persone già uccise per dare poi in pasto al proprio pubblico le scene più sanguinarie.

Tutto questo c’è stato, e c’è ancora, nelle riprese dei soldati e dei soccorritori, nei cellulari delle vittime, ma anche nelle go-pro o nei telefoni dei carnefici, che hanno documentato tutto per dimostrare ai propri capi o anche semplicemente ai propri compagni o amici di avere effettivamente compiuto quella carneficina. Molti dei quali li attendevano con altri telefoni per riprenderli in quella Gaza diventata poi nell’arco di poche settimane un cumulo di macerie. Dopo quel 7 ottobre, tutto si è interrotto. La vita delle persone uccise, la normalità dei loro familiari, la quotidianità di chi aspetta di avere notizie di un proprio caro rapito da Hamas. E in quell’abisso dell’umanità, sembrano sprofondati anche i sogni di convivenza tra i due popoli e la spensieratezza di un Paese che sembra avere perso parte della propria anima.