Mentre fumo e fuoco si levano in lampi di fiamma sulle martoriate terre del NagornoKarabakh e le croci vengono divelte, spezzate, i cimiteri profanati, i simboli sacri della Cristianità fatti a pezzi, l’orrore approda a Bruxelles. Nelle aule delle istituzioni dell’Unione Europea? In realtà, no. Una veglia di preghiera è stata indetta dalla diaspora armena, riunita in Belgio e giustamente indignata e colma di sofferenza per gli indicibili orrori che si stanno consumando tra gli altipiani arsi dai missili e dal sole, a migliaia di chilometri di distanza. E proprio il silenzio dell’Unione, sempre più imbarazzato e imbarazzante, restituisce l’immagine drammatica di una debolezza che nella politica estera non riesce ad esprimere una visione unitaria e una altrettanto unitaria voce, rinfocolando le posizioni euro-scettiche e spingendo, nonostante la frattura attuale, l’Armenia e la sua popolazione tra le braccia di una Russia che pure sembra aver tradito le aspettative di `protettore storico’ dell’Armenia, per ragioni di cinico realismo politico. In una sola settimana, i militari azeri hanno occupato e desertificato la Regione, facendosi sovente immortalare fotograficamente mentre umiliano e profanano la cultura armena, e i suoi simboli.

Hanno preso poi a circolare altre immagini, di militari in posa marziale con tra le mani le merci rubate dai magazzini saccheggiati, in una stordente similitudine con quanto avviene nella martoriata Ucraina. Secondo stime delle Nazioni Unite, che hanno organizzato la prima missione diplomatico-umanitaria nell’area degli ultimi trent’anni, due terzi di tutti gli armeni residenti nel Nagorno-Karabakh si sono allontanati, diventando profughi che verosimilmente non torneranno mai nelle loro case. Le quali, a scanso di equivoci sulle intenzioni dei militari azeri, sono state demolite o fatte brillare con l’esplosivo. Molti dei fuggiti sono stati accolti in abborracciati centri profughi allestiti in Armenia, dove la situazione politica è incandescente, altri sono emigrati in Occidente, in uno spostamento di massa che rischia di divenire, per l’ennesima volta e in un arco temporale estremamente ristretto, un fattore di destabilizzazione geopolitica.

D’altronde anche il lessico utilizzato dalle autorità azere per invadere la regione, “operazione speciale”, ricorda molto quanto già visto e sperimentato in Ucraina, spietati e cinici neologismi che nascondono una sostanza intessuta di invasione, rapina e pulizia etnica. Casus belli, ipotetico e anche questo sembra rimandare alle pagine più cupe della Seconda guerra mondiale, la presunta uccisione di militari azeri da parte di indipendentisti armeni. Proprio come in Ucraina, anche nel Nagorno-Karabakh i soldati invasori lungi dal limitarsi alla protezione delle minoranze minacciate e in pericolo, secondo la narrazione utilizzata per legittimare l’intervento armato, si sono lanciati nella fattiva eradicazione delle vestigia cristiane e riferibili alla millenaria cultura armena, una operazione avviata ormai anni fa e ripresa con vigore ora, nel silenzio della comunità internazionale, di totale pulizia etnica.

Particolarmente grave l’indecisione palesata dalle istituzioni europee perché l’Armenia – sin dal 2018 – ha guardato con grande simpatia all’Unione e, non casualmente, anche in questi giorni, oltre a denunciare l’Azerbaigian davanti la Corte penale internazionale, i governanti di Erevan si sono rivolti espressamente alle autorità europee in forza di quel comune sentire e di quelle radici cristiane che rappresentano il più potente tra i ponti per popoli e Paesi. Ad oggi si registrano “ferme condanne” da parte di parlamentari europei, espresse in maniera marginale rispetto quello che potrebbe e dovrebbe essere il peso specifico, e in certa misura la ragione vitale, dell’Unione Europea. La complessa partita – politica, diplomatica, umanitaria ma anche energetica visto che quelle regioni sono snodo essenziale in chiave di politica energetica – non può vedere una Unione Europea passiva spettatrice, limitatasi a rimanere in un cantuccio, e a rilasciare mere dichiarazioni non seguite da atti concreti che dimostrino la sua essenzialità e il suo peso.