Il lungo passaggio sull’energia, del discorso roboante, sfidante e rivoluzionario di Trump, ha il pregio di consentire di misurare il gap fra i propositi dichiarati e i risultati ottenibili. Trump ha dichiarato: “Drill, baby, drill”. Riprendere a perforare ovunque, motivando le compagnie con incentivi fiscali e regolatori (più libertà d’azione e meno restrizioni). Funzionerà? Per capirlo, occorre una riflessione su alcuni nodi strutturali dell’industria petrolifera americana.

Nel 1982, il Congresso americano ha approvato il Clean Air Act, una legge che ridefiniva la qualità e la composizione molecolare dei combustibili per il trasporto. Una vera rivoluzione, perché si interveniva nella tecnologia della raffinazione. Un obiettivo non attuabile a meno di investimenti giganteschi nell’industria della raffinazione americana (che non sono mai stati fatti). In pratica, il Clean Air Act ha messo fuori gioco circa il 60% delle raffinerie americane, rendendole tecnologicamente obsolete.

Le grandi compagnie petrolifere si sono affrettate ad abbandonare il settore. Quando nel gennaio 2000 la legge fu implementata (per ragioni politico-elettorali durante lo scontro Bush-Gore) il risultato fu la comparsa dei cartelli “Run out of Gas” (non c’è benzina) presso la maggior parte delle stazioni di servizio. Uno shock per ogni autista americano. Dopo quasi un anno, si trovò un equilibrio precario ma funzionante, attraverso l’importazione dal Venezuela ed altri paesi (Europa e Sud America) di componenti di alta qualità da miscelare con le loro benzine rendendole compatibili con le specifiche di legge. Questa fragilità strutturale impedisce agli USA di essere autonomi nel settore petrolifero. Senza l’importazione di feedstock e greggi dal Golfo Persico (o dalla Russia), l’America resta senza benzine.

La dimensione del fenomeno è enorme. Le raffinerie americane producono 10 milioni di barili/giorno di benzine. Solo 3 milioni sono direttamente vendibili sul mercato, il resto (ovvero 7 milioni) devono essere mescolate per essere vendute. La parte che non riesce ad essere mescolata viene esportata verso i paesi africani e del Medio Oriente dove si usa tutto ciò che brucia. Senza affrontare questo nodo cruciale, trovando risorse per gli investimenti e, soprattutto, compagnie petrolifere disponibili e capaci di intervenire e gestire la ristrutturazione del settore, l’obiettivo di Trump rimane velleitario. Limitarsi a perforare e tirare fuori più petrolio non basta.

La produzione di shale oil richiede che il prezzo del petrolio rimanga al di sopra di 50-60 $/bbl. A valori inferiori, l’attività si ferma. Lo shale oil è un tipo di petrolio leggero e pieno di metalli, indigesto al sistema di raffinazione americano. Forzarne l’immissione in raffineria produce scompensi tecnici ed economici non sostenibili dagli operatori. Produrre più shale oil senza che ci sia una domanda da parte del sistema di raffinazione produrrebbe un eccesso di offerta e quindi una riduzione del suo prezzo. E quindi una fermata della produzione. Si capisce quindi il tentativo di Trump di voler esportare i suoi problemi in Europa, obbligando i raffinatori europei a comprare lo shale oil americano ed a raffinarlo nei propri impianti.

La raffinazione europea ha subìto nel corso degli ultimi decenni delle trasformazioni profonde non dissimili da quelle americane. Oltre la metà delle raffinerie sono state chiuse, le altre continuano a funzionare a vista finché possibile. La più recente raffineria costruita in Europa è del 1976. Gli impianti europei sono meno flessibili di quelli americani e se lo shale oil è un problema in America, in Europa è un incubo. L’ipotesi di obbligare i raffinatori a comprare shale oil, pena il blocco del parmigiano o dei vini francesi, appare un’arma spuntata ed inefficace. Quando dalle pacche sulle spalle e gli abbracci, si passerà alle richieste puntuali, sarà un amaro risveglio.

In questo quadro, la situazione italiana è ancora più preoccupante. Il nostro sistema di raffinazione è ormai in condizioni pietose. Priolo e Saras sono già state vendute a società di trading (Trafigura e Vitol) ed un’altra sta per esserlo a Glencore, altro trader internazionale. Fanno shopping in Italia perché trovano una classe dirigente assente e non curante del problema dell’approvvigionamento energetico e degli imprenditori stanchi che vogliono incassare il loro “TFR”. D’altronde, abbiamo decretato che le fonti fossili spariranno del tutto fra il 2035 e il 2050. Perché preoccuparsi? Basta aspettare che “passi la nottata”. E continuiamo a chiederci perché il costo dell’energia in Italia è molto più alto che in Europa e negli USA.

Con un quadro simile, è evidente che il prezzo dei combustibili sarà sempre più alto e per disporne dovremo competere con i prezzi dei mercati più competitivi del mondo. Nel programma di Trump, il petrolio sembra essere il punto più tranquillo da realizzare. Eppure, un esame attento mostra che la realtà è un po’ più complessa di quanto appare. Sarà lo stesso per gli altri targets?

Salvatore Carollo

Autore