Jamie Dimon, CEO di JP Morgan Chase, ha dichiarato a Davos che i dazi statunitensi sono “o uno strumento o un’arma economica”, e ha aggiunto: “Mettiamo le cose in prospettiva: se sono un po’ inflazionistici ma garantiscono la sicurezza nazionale, così sia. Bisogna farsene una ragione”. Un’affermazione che ben sintetizza la visione pragmatica del nuovo corso americano sotto la presidenza di Donald Trump, in cui la politica economica si intreccia con gli obiettivi di sicurezza nazionale e geopolitica. Il repubblicano ha ora in mano quello che Bloomberg definisce un’arma “carica”: i dazi con effetto immediato (T+1), pronto per essere usato come leva per raggiungere obiettivi di sicurezza nazionale e attirare nuovi investimenti negli Stati Uniti. O per perseguire obiettivi di politica estera.

La minaccia sui dazi

Un esempio lampante è la minaccia di introdurre, a partire dall’1 febbraio, dazi del 25% su Messico e Canada e un ulteriore 10% sulla Cina, giustificate da motivi di sicurezza nazionale. Trump ha anche dichiarato che, se il presidente russo Vladimir Putin non accetterà un accordo di pace per porre fine alla guerra in Ucraina, gli Usa imporranno nuove sanzioni, tasse e dazi sul settore energetico russo. Che farà ora lo zar? Non sono in pochi a pensare che non accetterà l’offerta e andrà avanti. Il presidente ucraino Zelensky ha avvertito che un eventuale accordo di pace richiederebbe la presenza di 200.000 soldati europei per essere sostenibile. Avere truppe occidentali in Ucraina era esattamente ciò che Putin sosteneva di voler fermare quando ha iniziato questa guerra aperta.

Intrappolato da questa difficile scelta e nella disperazione, Vladimir potrebbe scegliere di continuare la lotta, sperando di poter comunque ottenere ciò che non gli verrà concesso dai colloqui e – così facendo – portando l’amministrazione Trump in rotta di collisione diretta con lui. Questa mossa potrebbe includere anche restrizioni per coloro che acquistano energia dalla Russia o collaborano con essa, coinvolgendo quindi la Ue – che ancora dipende in modo significativo dal GNL russo – ma anche India e Cina. Le implicazioni per il mercato europeo potrebbero essere devastanti. Il taglio del GNL russo farebbe salire i prezzi del gas TTF a 70-80 €/MWh, mentre il blocco del petrolio russo potrebbe portare i prezzi a 90-95 dollari al barile, almeno fino a quando l’OPEC non aumenterà la produzione per stabilizzare il mercato.

La strategia di Trump non è priva di rischi. Se gli Stati Uniti scelgono di intensificare il conflitto economico per mettere fine alla guerra in Ucraina, Russia e Cina potrebbero rispondere con le proprie contromosse, utilizzando non solo strumenti economici ma anche politici e militari. Come riportato dal Financial Times, Pechino starebbe già fornendo perclorato di sodio all’Iran per alimentare i suoi missili balistici. Sono attese anche nuove forme di militarizzazione su materie prime e logistica. In questo contesto volatile, i mercati devono fare i conti con una realtà in cui escalation e de-escalation sono all’ordine del giorno. La volatilità diventa così la parola d’ordine, mentre si moltiplicano le notizie di leader mondiali costretti a istituire “war room” per affrontare la raffica di ordini esecutivi di Trump, come evidenziato dal Wall Street Journal.

A livello globale, la nuova era Trump sta già cambiando le dinamiche di potere: Bloomberg sottolinea come “uno dopo l’altro, i leader mondiali a Davos si stiano allineando all’era Trump”, anche se ci sono alcune eccezioni. La presenza di 200.000 soldati europei in Ucraina equivarrebbe quasi all’intero esercito francese ed evidenzia quanto l’Europa sarà costretta ad aumentare la spesa per la Difesa nei prossimi anni. In Medio Oriente, l’amministrazione di The Donald ha reinserito i ribelli Houthi dello Yemen nella lista delle organizzazioni terroristiche, mentre il principe saudita Mohammed bin Salman ha promesso investimenti per 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.

Nel frattempo l’Europa si trova a dover affrontare una realtà sempre più complessa. L’idea di diversificare il commercio verso l’America Latina o l’ASEAN – come suggerito dal ministro del Commercio francese – sembra poco praticabile, considerando che queste regioni hanno relazioni economiche più strette con gli Usa. Allo stesso tempo l’Argentina – sotto la presidenza di Javier Milei – è pronta a lasciare il Mercosur per ottenere un accordo commerciale con gli Stati Uniti, rendendo la Ue sempre più marginale nei mercati globali.

Il nuovo corso americano, sotto la guida di Trump, sta riscrivendo le regole del gioco geopolitico ed economico. Mentre gli Stati Uniti utilizzano i dazi come strumento di sicurezza nazionale e di politica estera, l’Europa fatica a trovare una strategia coerente per rispondere alle sfide del momento. In questo contesto, il futuro si prospetta incerto. Ma una cosa è chiara: la politica globale si muove a velocità vertiginosa e nessuno può permettersi di rimanere indietro.