Metti una sera a cena. Metti che, a margine di un discorso sullo stato della giustizia in Italia, la discussione scivoli liberamente, tra commensali, sulla guerra in corso in Ucraina.

Alessandro Barbano: “È così che è andata. Prima, un’ampia condivisione di categorie liberali dello stato di diritto. Poi, fuori dalle formalità del dibattito pubblico, a distanza più ravvicinata, gomito a gomito allo stesso tavolo, Putin, la guerra, l’Occidente. E una genealogia del conflitto che non lasciava spazio alcuno a un giudizio morale e politico di condanna dell’invasione. L’avvocato che si infervorava spiegandomi che in Ucraina l’Occidente combatte una guerra per procura, che la Nato ha fatto di tutto per scatenarla, che la Russia è un Paese che non ha mai aggredito nessuno (che fine hanno i carri armati a Budapest e a Praga, o la guerra in Afghanistan?, pensavo io), che è stata l’Ucraina a violare gli accordi di Minsk – e a quel punto che altro poteva fare il buon Putin? – l’avvocato così riccamente edotto in storia e diritto internazionale, non dava purtroppo nessunissimo peso a un discrimine fondamentale: dove si combatte, chi ha invaso chi”.

Massimo Adinolfi: “Mi pare che il tuo punto sia non tanto l’accuratezza ahimè solo presunta della ricostruzione storiografica, quanto piuttosto le categorie con le quali provare a orientarsi nel pensiero. Prima ancora di decidere da dove far cominciare questa storia e come raccontarla – dalla violazione degli accordi di Minsk? E perché non dalla storia che li ha preceduti? Oppure dalla fine dell’URSS e dalla fatale cessione dell’arsenale nucleare ucraino a Mosca, o più indietro, dall’Holodomor, lo sterminio per fame degli ucraini voluto da Stalin? – bisognerebbe chiedersi con quali categorie giudicarla, che uso fare della nozione di responsabilità, quale significato dare al quadro di vincoli normativi dentro i quali si svolge la vicenda storica e politica”.

Alessandro Barbano: “Ti fermo subito, perché voglio arrivare a porre una domanda che riguarda noi, le democrazie liberali, e che ci riguarda oggi: non, dunque, su un piano ideale, ma nella realtà in cui siamo immersi. A me sembra che il mio interlocutore non si attenesse per nulla a una distinzione chiara e assolutamente fondamentale fra aggredito e aggressore. Riflettere sui trent’anni che precedono il febbraio 2022 può portare alla luce errori che possono avere avuto un peso, quegli errori è ben possibile che siano stati commessi anche dai paesi occidentali (benché il progetto aggressivo e espansionistico della Russia di Putin sia del tutto indipendente dagli errori che si vogliono imputare a Kiev o alla Nato), ma non può offuscare le gravissime responsabilità di Putin. La storia, come la psicanalisi, ci aiuta a capire quello che c’è di sotto alle nostre azioni, ma non ce ne toglie affatto la titolarità, se non in una chiave deterministica che, da liberale, non posso che respingere. C’è una soglia; quando la superi, quando decidi di superarla, io, in maniera molto semplice, considero che ne porti intera la responsabilità. Lo statuto della pace in Occidente, dopo la seconda guerra mondiale, si fonda su una soglia del genere: non è possibile trasformare l’aggressore in vittima, non importa da quale storia provenga”.

Massimo Adinolfi: “Non so a che punto della cena foste, e se abbiate potuto consumarla in pace. Ti fossi trovato dinanzi a un putiniano a tutto tondo, l’avresti visto fare proprio questo: maneggiare la storia in modo da non far iniziare la guerra in quel tal giorno di febbraio, ma prima, in modo da presentare l’invasione non come una guerra di aggressione, ma come l’operazione militare speciale volta a riparare i torti subiti dai russofoni in Ucraina, loro essendo le vere vittime del governo filonazista di Kiev”.

Alessandro Barbano: “L’avvocato ha preso invece un’altra strada. Con uno scatto improvviso, ha abbandonato il terreno dei torti e delle ragioni, per scegliere quello della Realpolitik e obiettare che la Russia non può perdere questa guerra perché per i russi la vita non vale niente, e Putin può rovesciare milioni di russi sul campo di battaglia senza timore delle perdite”.

Massimo Adinolfi: “Potevi chiedergli almeno perché allora mette tanta attenzione a non mandare al fronte i moscoviti: che russi sono, quelli?”.

Alessandro Barbano: “Hai ragione. A me interessava però respingere l’idea che per noi – per un italiano, per un europeo, per un occidentale – la vita vale più della libertà. Non è vero, gli ho detto, l’Europa ama la pace ed è una costruzione di pace, ma non sarebbe quella che è se non avesse combattuto, a non dir altro, per la libertà contro la barbarie nazifascista. Ma a quel punto siamo stati interrotti e la serata ha ripreso il suo corso sui temi della giustizia per i quali ero stato invitato. Rientrando a casa, però, non ho potuto non tornare col pensiero alla discussione animata che avevo avuto, e che mi riportava alla mente una notizia d’agenzia, ripresa anche da Maurizio Crippa su «Il Foglio»”.

Massimo Adinolfi: “Prima di dirmi quale, devo confessare che mi sembra di scivolare in un dialogo platonico, coi personaggi che riportano quello che Tizio aveva riferito di Caio che aveva raccontato quello che Socrate aveva detto…”.

Alessandro Barbano: “Non aspiro a tanto. Ma lasciami dare la notizia: ci sono libri di storia nei quali si legge che la Crimea non è stata annessa con la forza, ma si è ricongiunta con la madrepatria. O che sotto l’egida comunista le diverse nazionalità dell’Unione Sovietica avevano vissuto in pace, mentre dopo il crollo del comunismo i conflitti sono esplosi, lasciando così intendere che…”.

Massimo Adinolfi: “Di cosa ti meravigli?”.

Alessandro Barbano: “La tua è la stessa reazione di Crippa: facciamocene una ragione! Lui dice che ancor prima che impossibile è del tutto inutile provare a correggere libri di storia che sembrano usciti dalla stamperia del Cremlino. La pigrizia culturale dei docenti italiani di storia è invincibile: dopo tutto, sono loro ad adottare i testi scolastici. Ma arrivo finalmente alla domanda che volevo porti, e cioè: dentro una congiuntura globale che divide il mondo tra visioni contrapposte, tra un modello occidentale, democratico, e un modello autocratico, illiberale, come fa l’Occidente a costruire quella memoria condivisa, su cui poggia la stessa legittimità della delega politica, e le scelte di governo? Insomma: le democrazie liberali non reprimono il dissenso, ma che succede se il dissenso mina le democrazie liberali, o cresce sino al punto da metterne in forse la tenuta? Non è da irresponsabili difendere il pluralismo senza curarsi di ciò che cresce nel suo seno? Siamo dalle parti del dilemma di Böckenförde: le democrazie liberali vivono di presupposti di natura etica che non possono garantire. Quale risposta mi dai, da filosofo?”.

Massimo Adinolfi: “Aggiungi ‘da filosofo’ come per mettere una fiche in più sulla tua domanda! Ma io devo confessare di non esser affatto sicuro di poter rispondere (né che tocchi in particolare ai filosofi). E poi non amo i dilemmi: in genere, o sono autentici dilemmi, e allora non c’è risposta, oppure sono falsi dilemmi, e allora non mette conto di rispondere. Provo allora a dir così: se mi poni una questione di principio, senza riguardo a situazioni concrete, oserei dire che si tratta di un falso dilemma. Per due ragioni: perché non è vero affatto che una democrazia vive di presupposti etico-valoriali che non può difendere, primo perché può difenderli eccome, e secondo perché non vive di presupposti. Li può difendere, com’è vero che la Repubblica italiana difende i valori iscritti nella Costituzione (e non si tratta di poca roba); e non vive di presupposti, perché non vive solo di eredità passate, ma vive a condizioni di saper generare futuro, tanto sul piano materiale, della prosperità materiale, quanto su quello dei valori (pensa alla rubrica dei ‘nuovi diritti’). C’è poi un’altra ragione per cui respingo in linea di principio il dilemma che tu formuli. In astratto – sottolineo: in astratto, per non apparire troppo ingenuo – in una democrazia liberale che sia all’altezza del suo concetto non si dà il caso che si formi una maggioranza che ne sovverte i principi. Essere liberali, in materia costituzionale e di diritto, richiede infatti anche una certa fiducia nella capacità delle istituzioni della democrazia – e dico anche il sistema educativo, la pubblica opinione, la stessa ‘pedagogia delle leggi’ – di cementare l’opinione favorevole della maggioranza. Non un dilemma, ma un circolo virtuoso. La libertà crea insomma il clima che la fa preferire e rendere persino irrinunciabile, come ce ne si accorge quando la si perde, e allora la si va cercando come il bene più prezioso (checché ne pensi il tuo ignoto avvocato di una sera)”.

Alessandro Barbano: “Fin qui però mi hai risposto in astratto. Ma che succede in concreto con gli obbrobri di certi manuali di storia, con la marea montante della propaganda, con il disincanto che sembra comprometterne la tempra morale di un Paese? Potrei portare molti esempi, presi dalla scuola come dalla rete, o dalla tv…”.

Massimo Adinolfi: “In concreto le battaglie culturali, ideali, si combattono. Non è vero che le democrazie liberali non possano combatterle o che abbiano le mani legate per il rispetto che devono alle opinioni in dissenso. Si rispetta il dissenso, e gli si mette un limite. Ma, allo stesso tempo, la democrazia non smette di lavorare e di confidare sul consenso. Poi, certo, gli errori politici sono sempre possibili, ma non vedo nulla di fatale in essi, e nemmeno una particolare debolezza delle democrazie liberali in tutto ciò. Ma siccome tu domandi in concreto, io aggiungo che non penso proprio che da qualche parte al Ministero dell’istruzione funzionari occhiuti dovrebbero provvedere alla correzione dei manuali scolastici, mentre – per richiamare un caso che mi tocca da vicino – tornerei subito a invitare Maurizio Molinari nell’università Federico II di Napoli – è lì che insegno –, dove non gli hanno consentito di parlare, con il risibile argomento che siccome ha modo di parlare quando vuole e dove vuole, visto che è il direttore di un grande giornale, togliergli la parola non ha leso davvero la sua libertà. Ma chi si arroga, allora, il diritto di stabilire chi può parlare e chi no nelle aule universitarie? Naturalmente, chiunque rispondesse autolegittimandosi a farlo violerebbe una regola fondamentale. Che però in democrazia si ha tutto il dovere, non solo il diritto, di far rispettare”.

Alessandro Barbano: “Prendo il tuo discorso ottimistico da quella parte da cui può forse ancora valere. Cioè dall’esterno, perché vista dall’esterno, vista dalle piste dell’aeroporto di Kabul dove gli afghani provavano disperatamente a salire sugli aerei in partenza, o dalle strade di Teheran dove le ragazze sognano la libertà e l’emancipazione che si sperimenta in Occidente, oppure dai campi di battaglia dove gli ucraini difendono la loro indipendenza e sperano di poterla ancorare all’Unione europea, la cornice liberale delle democrazie occidentali si può dire che valga ancora come un faro, un termine di riferimento, anche senza parlare di primato. Ma getta luce, quel faro, anche per noi? Vale davvero come termine di riferimento per noi stessi? Non si è prodotto un distacco troppo ampio con parte almeno della società e dell’opinione pubblica? Non c’è un elemento di stanchezza, oltre che di confusione, che indebolisce le coordinate valoriali dell’Occidente? Non lo si avverte benissimo, qui da noi?”.

Massimo Adinolfi: “Forse c’è qualcosa del genere: un certo sfilacciamento, un disamore, ma forse anche l’illusione di potersi chiamare fuori da scelte difficili, che il contesto internazionale ci richiede. Non è la prima volta, però. Fatte tutte le differenze, penso all’ampiezza del movimento pacifista al tempo della crisi degli euromissili, nei primi anni Ottanta, quando si schierarono in Europa i Cruise e Pershing in funzione antisovietica. Tutti i discorsi di allora contro la guerra, contro il bellicismo atlantista, contro un Europa imbelle piegata agli interessi americani si potrebbero riportare pari pari all’oggi. E cosa dimostra un simile esempio, se non che, come dicevo, le battaglie culturali vanno combattute?”.

Alessandro Barbano: “Allora ti chiedo seccamente: l’Occidente deve o no dotarsi di una pedagogia, di una cultura condivisa, che, senza mettere in discussione la libertà di pensiero, lubrifichi, rigeneri, valorizzi e renda visibili certe scelte di valore? E come si fa, senza negare la libertà e il diritto al dissenso al tuo studente contestatore o al mio amico avvocato? Occorrono politiche centralistiche maggiori, di controllo, per esempio rispetto al ruolo che il giornalismo ha? Percorsi di responsabilizzazione, di verifica nell’accesso alle professioni della comunicazione? La forma dell’opinione pubblica è consustanziale alle sorti della democrazia, perché la democrazia non si sostanzia del solo dettato costituzionale e del libero voto. Forse occorre costituzionalizzare la funzione giornalistica, inserendo nella Carta la sua fisionomia di quarto potere”.

Massimo Adinolfi: “Non provo a interloquire da giurista, perché non saprei dire quali obblighi ulteriori discenderebbero dalla costituzionalizzazione che dici, e se non possano essere affidati al semplice rispetto e all’applicazione delle leggi. La metto anche qui nella forma di un dilemma che provo a svuotare: se stai delineando una torsione di tipo emergenziale, me ne guarderei bene; se no, si tratta di un terreno che è innanzitutto politico e culturale, sul quale si può già scendere. Sul quale già scendiamo tenendo questa conversazione, ad esempio. Permettimi però un piccolo sproposito. La difesa della libertà europea, nell’ora più buia, è passata anche attraverso Radio Londra. Non sono uno storico del giornalismo, spero di non dire una sciocchezza, ma l’impiego dei mezzi finanziari e tecnici per metterla su non credo richiedesse qualche strappo ai principi del liberalismo. Lo spazio che insomma abbiamo, dentro quei principi, è ampio abbastanza per farci Radio Londra, e pure Radio Kiev. Il vero punto semmai è: quanto deve esser forte l’allarme, oggi, per le sorti della democrazia? Ma questa è una domanda politica, non un dilemma filosofico. E per rispondere conta di più sapere se a novembre vince Trump, o se Kiev supererà l’estate”.

Alessandro Barbano: “Forse hai ragione. Ma, a proposito di dilemmi, io cerco un modo per sottrarre la discussione a contrapposizioni sterili, del tipo “si vis pacem para bellum” (Charles Michel) da una parte, e dall’altra “si vis pacem para pacem” (il cardinale Zuppi). Retoriche non so quanto concludenti. Forse, se vogliamo davvero la pace, dobbiamo cominciare a preparare, a informare e a formare l’opinione pubblica. Forse occorrerebbe anzitutto un grande progetto pedagogico, nel quale per esempio sarebbe essenziale mobilitare la Rai, che rimane la più grande azienda culturale del Paese e che non so quanto sia cosciente del suo ruolo. Di sicuro non lo è quanto lo furono coloro che, nell’immediato dopoguerra, le affidarono compiti politici e culturali enormi, di costruzione dell’identità civile collettiva del Paese”.

Massimo Adinolfi: “Era una Rai che insegnava l’italiano, e anche il democristiano. Ma manteneva una pellicola sottile che consentiva di tenere almeno formalmente distinte le due cose. E alle distinzioni, da filosofo, io non posso rinunciare”.

Alessandro Barbano: “Nemmeno io, da liberale. Chissà però se invece non vi rinuncino, molto più bruscamente, il mio avvocato e il tuo studente”.

Massimo Adinolfi: “Lo temo molto. Ma chi ha scelto la via migliore, solo un dio può saperlo: si vedrà. A noi, intanto, non rimane che continuare a esaminare e a interrogare”.

Alessandro Barbano: “Lo faremo ancora, senz’altro”.

Alessandro Barbano - Massimo Adinolfi

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