Pietro Citati, scomparso l’estate scorsa, è stato certamente un saggista notevole. La sua prima raccolta, Il tè del cappellaio matto (1972), rivelò una qualità visionaria della scrittura e una immaginazione letteraria prodigiosa. In una storia ideale della saggistica letteraria lo metterei nel capitolo di Garboli e Calasso: critici inafferrabili e dallo stile elegantissimo – a tratti ipnotico – , “dilettanti” di genio onnivori, a proprio agio nelle discipline più diverse (dalla critica d’arte alla teologia), inclini a condensare il destino di uno scrittore in un aforisma. Citati è un inesauribile flâneur letterario e un biografo innamorato. Credo però che la sua prosa, che riflette coerentemente la sua idea di letteratura, incontri un limite insuperabile, che ora cercherò di spiegare.

Proviamo a leggere l’ultimo libro di articoli e recensioni, uscito postumo, La ragazza dagli occhi d’oro (Adelphi), una raccolta che spazia ariosamente dalle tradizioni sapienziali ai grandi mistici, dalla pittura al romanzo inglese, russo e francese dell’’800, da Groucho Marx a Sebald, da Herling a Marìas, e ad alcuni ritratti di scrittori italiani con cui ebbe amicizia (Moravia, Flaiano, Manganelli…).. Nella Ragazza dagli occhi d’oro trovate pagine di critica letteraria e di meditazione sull’esistenza, degne dei grandi moralisti classici: si pensi a quelle dedicate a Jane Austen e Dickens, ad Oblomov, (il “far nulla” come ossessione), a Sherlock Holmes (i cui padri putativi sono Montaigne, Sterne e Poe!) e o anche a certe scintillanti istantanee (su Bosch: “era cattolico. Non essere cattolico era per lui una cosa impossibile…”). Ogni articolo si presenta come una lunga, affascinante conversazione, “genere” settecentesco a lui caro, in cui rientrano “l’allegria, la fatuità, l’edonismo, il dono mimetico, l’arte dell’improvvisazione, la finezza di spirito, la leggerezza frivola e grave”.

Però il tono prevalente è quello di una svenevolezza erudita, di una leziosaggine intellettuale, distillata perlopiù in uno stile calligrafico e in una eccessiva propensione al racconto critico. Citati passeggia amabilmente tra i suoi autori, raccontandoceli con una letizia disarmata, fin troppo esibita. Il suo aggettivo prediletto è “lieto”, e subito dopo “lieve”, e ancora dopo “delizioso”. In questa radiosa, eterna primavera della scrittura può diventare “lieto” perfino un giornale quotidiano, come il Giorno, cui collaborava. Se Saint-Beuve che era “felice e vanitoso dei propri bon mots”, anche Citati si mostra felice e vanitoso delle sue invenzioni verbali e delle sue lucenti metafore: “le nuvole, queste forme fantastiche e luminose, queste tenebre caotiche, queste immensità verdi e rosa…questi firmamenti di raso nero o viola, questi orizzonti dolorosi…”. Sembra l’inizio di un poema in prosa, ma potrebbe continuare all’infinito, come se non ci fosse attrito con gli “orizzonti dolorosi”. Citati ci fa sapere che è come sepolto dentro una biblioteca sterminata – che come quella di Borges non finirà mai di leggere – per lui fonte di godimento.

A me pare una immagine da incubo. Va bene, probabilmente “la lettura e i libri sono l’unica cosa illimitata del mondo” ma questa lettura claustrofobica somiglia a un ergastolo ostativo. Possibile che tutti i libri di mistica che ha letto non gli abbiano insegnato che l’eternità non è tanto un tempo senza limite quanto la sospensione del tempo. L’unico vero “illimitato” è l’amore per un altro essere umano, un sentimento di pienezza vitale nel quale perfino la morte stenta a fare breccia e che ci proietta in una dimensione eterna in quanto extratemporale. Una eternità dell’attimo vissuto, che tutti abbiamo sperimentato e che certo non coincide con una biblioteca. Citati ci parla spesso delle tenebre, della follia (“parte suprema della letteratura”), del disordine, della contraddizione, del vertiginoso, del male, dell’ “altro”, ma non ci fa mai sapere dove si trova lui. Come il suo Pascal – schiacciato “dagli spaventosi spazi dell’universo” – trova rifugio solo nella scrittura, in una “sublime stenografia”. E possiamo capirlo. Però se avesse trovato una lingua per dire quel disordine o quelle vertigini in modo diretto, almeno per una volta non “sghembo” – dunque rischiando anche qualcosa – sarebbe stato un saggista memorabile.