L’Europa di oggi è come il Monopoli, dove – se peschi la carta sbagliata – rischi di tornare al punto di partenza o di finire dietro le sbarre. L’Unione europea è riuscita a centrare entrambi i risultati, pescando dal mazzo l’incognita e inaspettata carta Trump che l’ha relegata a un ruolo marginale sullo scacchiere internazionale e messo in crisi, con un colpo di spugna, decenni di costruzione di una casa comune. Se è bastato un gesto muscolare del neopresidente americano per mettere in luce la spietata fragilità del progetto europeo, forse significa in primo luogo che questo è stato costruito su basi inadeguate. Le ragioni dell’economia, che sono state fino ad oggi il credo mantrico di questa Unione, sul cui altare si sono sacrificati popoli e governi, di fronte all’American Exit trumpiana e al sostanziale disimpegno del quasi “ex” alleato rispetto ai nostri destini e a quelli dell’Ucraina, non sono più una ragione sufficiente per stare insieme.

Oggi questo “liberi tutti” porta un nome preciso ed è quello di Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione, rieletta, va detto, con poca convinzione e più per mancanza di alternative, incarna tutto ciò che l’Europa non può più permettersi di essere: una lussuosa berlina a guida tedesca con eleganti interni alla francese e motore elettrico made in Taiwan. È evidente ormai l’illusorietà di un continente che ricalca il Sacro Romano Impero con la presidente della Commissione sul trono, contornata da funzionari ligi e anonimi e da banchieri che guardano al mondo dalle fredde vetrate di Francoforte.

I primi a bocciare senza fraintendimenti questa ubris tecnocratica sono stati proprio i tedeschi, che hanno scelto – non pochi – un partito che porta un nome simbolico: Alternativa per la Germania. L’alternativa, appunto. Si deve ripartire da qui. Ma da dove? Hanno ragione Edoardo Greblo e Luca Taddio, che invocano un referendum per riportare l’attenzione sull’unica questione che conta: tornare alla politica. E hanno ancora ragione quando sfatano il mito del Putin conquistatore, come gli Ottomani alle porte di Costantinopoli. Uno scenario improbabile, frutto dell’ennesima confusione mentale di un’Europa addormentata sulla propria propaganda che la vuole come depositaria, quasi per volontà divina, dell’unico possibile modello di governo, quella stanca democrazia liberale uscita dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese.

Il fatto è che, senza tante cerimonie, Putin prima e Trump poi ci hanno detto apertamente di non essere interessati e di guardare l’uno al progetto della grande Russia che vuole riappropriarsi dei territori che considera suoi, l’altro agli interessi di casa propria. E l’Europa finisce stritolata e afona nel mezzo, suonata come un pugile a fine carriera. In questo panorama, le nazioni europee hanno reagito andando in ordine sparso. Prima al tavolo velleitario di Macron e poi, ricondotti alla ragione dalla ben più credibile Inghilterra che, come Churchill insegna, ritrova spinta e orgoglio proprio quando l’ora si fa più buia. È il ritorno dell’Europa delle nazioni, da un lato, che non segna però la fine della famiglia europea ma il suo contrario. Afferma proprio il bisogno di più Europa e la solidità di uno spirito di appartenenza che va oltre le fredde e distanti istituzioni brussellesi che ci hanno rappresentato fino ad oggi. Uno spirito che chiede più politica, più partecipazione, più attenzione ai popoli, alle persone e meno tecnicismi di palazzo. In breve, più Politica, quella con la P maiuscola.

Prima di roboanti investimenti su un esercito europeo, la cui reale fattibilità è tutta da vedere, e i distinguo e i passi indietro già si sprecano, serve una prospettiva politica reale e comune. È valida l’idea di un referendum continentale che riporti proprio le decisioni nelle mani degli europei. Ma serve un referendum che archivi il trattato vigente, vecchio ormai di ottant’anni, e porti a un nuovo patto, da scrivere insieme, popoli e cittadini, per una nuova autentica democrazia europea.