Si legge, oggi, Alberto Moravia? Lo leggono, i giovani? Chi è, Moravia, per loro? Sarebbe interessante saperne di più, e capire se le cose che il romanziere romano ha scritto, più che per “come” le ha scritte, possano avere a che fare con questo nostro tempo strano, confuso, irrisolto, inquieto. Siamo quasi a un secolo dalla pubblicazione de “Gli indifferenti” (1927). E ci sarà un motivo se Bompiani, la “sua” Bompiani, ripubblica per l’ennesima volta questo capolavoro, insieme all’altro pilastro moraviano, “La noia” (1960), corredati entrambi di utili materiali e due note di Alessandra Grandelis: forse Moravia ci parla ancora.

La verifica che deve essere condotta riguarda la sussistenza delle ragioni filosofiche e artistiche che sono a monte dei due romanzi in questione in rapporto alla condizione umana di oggi: e probabilmente sì, l'”indifferenza” di cento anni fa – come la “noia” di sessanta – in un certo senso allude con più di un “segno” all’insensatezza del tempo presente, con la contemporanea alienazione dell’individuo rispetto a un mondo un miliardo di volte più complicato di quello del Novecento. Bisogna capire, cioè, se l’indifferenza di oggi – connessa magari con lo sviluppo telematico e le nuove forme di produzione – non abbia tra i suoi “antenati” quei personaggi moraviani isolati gli uni dagli altri e divisi in tanti “io”. D’altra parte, se Moravia viene letto molto meno di una volta, è anche vero che mezza letteratura italiana di oggi – senza fare nomi – ne è più o meno consapevolmente segnata proprio a partire da certe situazioni moraviane e dai suoi elementi forti: il sesso, il denaro, lo spaesamento morale, il declino della borghesia o come si voglia denominare la classe portante delle società occidentali.

Con “Gli indifferenti” «ha inizio il romanzo moderno e contemporaneo», scrisse Giacomo Debenedetti, con ciò inserendolo di fatto nell’alveo grandioso di quella che Antonio Gramsci, senza peraltro conoscerla, definì la “letteratura freudiana“, quella di Joyce, Proust, Svevo. E in questo senso è molto significativa la pubblicazione in questa edizione de “Gli indifferenti” del racconto che Moravia scrisse nel 1928, intitolato “Cinque sogni”, (cinque sogni fatti dai cinque personaggi del romanzo: Leo, Mariagrazia, Carla, Michele e Lisa) che anticipa il senso della multiforme malattia della borghesia, personaggi che già nel primo romanzo moraviano incontrano «l’abitudine e la noia» che «stavano in agguato e trafiggevano l’anima».

Il famoso incipit degli “Indifferenti” è già un grande mélange di nuova e classica letteratura: «Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto». Poi, in una Roma dove piove sempre – castigo divino o metafora esistenziale? – i cinque personaggi danzano intorno a effimeri vitalismi e malesseri incancellabili, nel bianco e nero di una nuova borghesia già fallita nel contrasto tra il niente abitudinario e le tempeste interiori. Ma se l’abitudine, condizione molto proustiana, è tratto più ottocentesco, ecco che la noia si affaccia già nel ’29 e percorre come un velocissimo sottomarino tutto il mare novecentesco, fino a diventare molto più della “noia” come la consideriamo normalmente: un’angoscia figlia dell’alienazione tipica della società capitalistica.

E siamo dunque arrivati al romanzo del 1960, nell’epoca dell’incomunicabilità descritta da Antonioni (Moravia apprezzerà moltissimo “La notte”) e della letteratura d’avanguardia anticapitalista. Nella “Noia” il protagonista, il pittore Dino, parla in prima persona della sua condizione fatta di un nulla difficilmente raccontabile, cioè di una condizione incapsulata tra il fallimento artistico e l’impossibilità di amare la giovane Cecilia (qualcuno la accostò alla Lolita di Nabokov), ma forse, nell’epilogo (in fondo è una tragedia), qualche cosa di nuovo si scorge, o forse no. Di certo – scrisse poi lo stesso Moravia – «la noia descritta nel romanzo omonimo come l’indifferenza degli “Indifferenti” stavano pur sempre a indicare quell’angoscia di vivere che sono convinto sia alla base della corrente esistenzialistica a cui so di appartenere e dalla quale deriva in gran parte il romanzo contemporaneo».

Oggi sta anche un po’ a noi che leggiamo decrittare il discorso moraviano che ci prende ancora, malgrado l’inevitabile corrosione del tempo ne abbia ingiallito qualche pagina. Ma Carla e Cecilia sono ancora là, nella loro femminilità colpevole e innocente insieme, e Dino e Michele s’interrogano sempre sul senso di una vita sprecata. E il tempo passa con la sua noia e la sua indifferenza, giungendo fino a noi.